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Damasco, Istanbul, Berlino

Massimiliano Trentin * - 15.09.2015
Staffan de Mistura

"La Siria è finita. Non c'è più un posto chiamato Siria": queste le parole sconsolate di un profugo siriano di Damasco intervistato dall'inviato della BBC. Padre di quattro figli, è giunto sulle sponde dell'isola greca di Lesbo ed è ora diretto ad Atene e da lì nel resto d'Europa. Forse non ancora tutto è perduto, e qualche brandello di Siria rimane non solo nei territori ma anche nei progetti dei siriani e di chi è loro vicino. Tuttavia, il dato politico di questi ultimi mesi è il peggioramento del conflitto nel Paese arabo la cui prova più lampante è la fine della speranza di molti siriani rifugiati nei Paesi vicini di poter rientrare a casa in tempi ragionevoli. Dopo oltre quattro anni di guerra civile e regionalee oltre 300 mila morti (le Nazioni Unite hanno smesso di tenerne il conto dalla fine del 2014); dopo, l'uso ormai provato di armi chimiche da parte dell'esercito siriano e dello Stato islamico;ed infine,dopo il radicamento delle formazioni salafite-jihadiste come principale forza militare di opposizione, non si può dare torto a chi decide che la "fuga" è la migliore strada percorribile, oggi.Le conseguenze del prolungamento del conflitto erano facili da prevedere. Ciononostante, la politica non ha voluto muoversi per tempo e ora stenta a farsene carico.

La guerra in Siria vede le parti in causa ancora incapaci di sferrare il colpo decisivo all'avversario e conquistare così l'intero "bottino". Nonostante la loro incapacità, proseguono ostinate nella strategia della vittoria totale, allontanando quel famoso "riconoscimento reciproco dello stallo" (mutuallyrecognizedstalemate) che è la base di ogni risoluzione politica di quei conflitti che sono impossibili da risolvere manu militari. Il governo di alAssad confida nel fattore tempo per spostare gli equilibri internazionali e regionali a proprio favore sfruttando la lotta contro l'organizzazione dello Stato islamicoper eliminaretutti i ribelli, tout court; Arabia Saudita e ribelli jihadisti confidano nell'esaurimento umano e sociale del regime di Damasco, sottovalutando la determinazione di Russia e Iran nel sostenere l'esercito siriano; i Paesi occidentali pensano ancora di poter contenere il sedicente Stato islamico senza formalizzare la cooperazione con Mosca, Teheran e Damasco. Come sostenuto dall'inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, Staffan de Mistura, al momento non ci sono spazi di compromesso tra le forze siriane; le distanze tra le potenze regionali sono ancora troppo grandi, e soprattutto l'Arabia Saudita non sembra disposta ad entrare nel processo di soluzione politica. Russia e USA convergono nella necessità di una soluzione politica che segni un forte cambiamento rispetto al passato ma preservi al contempo quel che rimane delle istituzioni statuali. Tuttavia, divergono sul ruolo e la sorte di Basharal Assad. L'unica strada percorribile al momento è lavorare sulla cooperazione tra Mosca e Washington per creare la cornice politica che forzi prima Teheran e Ryadadun compromesso da imporre a Damasco e ai ribelli in Siria. Nel frattempo, Mosca rafforza la propria presenza a sostegno dell'esercito siriano, confermando cosìdi essere con Teheran la principale garanzia materiale e politicadi questa istituzione.

Strettamente legata alla guerra in Siria è la crisi in Turchia. Il Presidente Erdogan eil suo delfino Davutoglu scontano ora tutti gli errori commessi nel Paese arabo: hanno puntato tutto sulla caduta del regime e la neutralizzazione dell'autonomia curda in Siria, e hanno perso la scommessa. Per quanto fragili,Assad è ancora al potere e i curdi della Rojava siriana hanno conquistato credito militare e politico a livello internazionale.Con tutti i limiti del caso, hanno dimostrato la possibilità di superare le logiche confessionali (religione) che legittimano la politica islamista di Erdogan; inoltre, la vittoria del fronte curdo-sinistra-liberali alle ultime elezioni in Turchia ha segnato il tentativo di superarele logiche etniche (lingua) che legittimano la destra nazionalista turca. Risposta: l'Islam di mercato sempre più autoritario di Erdogan si è alleato con lo "stato profondo" della destra turca, e gioca sul filo della guerra civile nel Paese anatolico: Stato contro società, società contro società.

Infine,la guerra in Siria è entrata in Europa in diversi modi. Tra questi, dapprima, come catalizzatore dell'islamismo radicale, le cui azioni fomentanole pratiche didiscriminazione e di esclusione delle forze xenofobe europee; poi, come forza di sfondamento della "fortezza Europa", mostrando tutti i limiti dello sciovinismo e della xenofobia che si fa istituzione nelle politiche migratorie e di asilo del vecchio continente.Oltre a questi effetti, la guerra in Siria sembra accelerare l'uscita della Germania dallo stato di fatto di "egemonia riluttante" in cui si trova da qualche anno. Non serviva la dichiarazione di Angela Merkel per riconoscere che sulle politiche migratorie si gioca il futuro politico dell'Europa; serviva purtroppo la presa di posizione del Paese più "ricco per dare avvio ad una trasformazione delle politiche migratorie europee. Vedremo se il centro-destra tedesco saprà elaborare un progetto all'altezza delle sfide di un processo tanto epocale quanto immediato; vedremo se il centro-destra tedesco saprà imporsi sulle destre europee con altrettanta forza come fatto nei confronti della sinistra in Grecia, e in Europa.La Grecia, appunto, è un precedente che pesa sul merito e sulle modalità con cui si esercita il primato tedesco in Europa.

Intanto, la violenza politica che nutree gli uomini e le donne che la"ferita aperta" della Siria pongono in movimento sono prove tangibili dei rischi connessi al considerare e mantenere i "vicini" del Mediterraneo così "distanti" tra di loro.

 

 

 

 

* Ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali di Bologna