Ultimo Aggiornamento:
22 gennaio 2025
Iscriviti al nostro Feed RSS

Argomenti

Il voto dei giovani

Luca Tentoni - 10.02.2018

Negli anni Settanta, il voto dei giovani era considerato decisivo, sia per l'orientamento degli elettori fra i 21 e i 25 anni (non compiuti) o fra i 18 e i 25 (dopo l'abbassamento della maggiore età, avvenuto nel 1975), sia per la numerosità di quelle coorti. I giovani erano tanti, figli del dopoguerra, cresciuti durante gli anni Sessanta, mediamente più istruiti dei genitori e di tutte le generazioni precedenti; il loro peso elettorale non era inferiore a quello dei votanti della "terza età". Oggi la situazione è molto diversa. I giovani sono pochi, hanno una grande indecisione se andare a votare o meno, dunque politicamente pesano molto meno degli "over 60" (o 70). Le loro aspettative socio-economiche, inoltre, sono ben diverse dai coetanei degli anni Sessanta e Settanta: il futuro che si presenta è molto meno roseo, così come il presente (nonostante un livello d'istruzione ancora superiore rispetto ai ventenni di quaranta anni fa). Insomma, il voto dei giovani adulti non "fa più paura" ai partiti, il che alimenta, nei ragazzi che si sentono "esclusi" un ulteriore sentimento di abbandono da parte della politica, di inutilità della partecipazione elettorale. Secondo un recente studio Demopolis, il 47% dei giovani fra i 18 e i 25 anni non sembra intenzionato ad andare ai seggi. Il 4 marzo prossimo. leggi tutto

Il voto "dell'ultimo minuto"

Luca Tentoni - 03.02.2018

C'è, da parecchi anni, un fattore in grado di cambiare rapporti di forza fra partiti e coalizioni consolidati per settimane e mesi. È il voto "dell'ultimo minuto", quello degli italiani che decidono di andare ai seggi e di scegliere un partito solo dopo la chiusura della campagna elettorale, cioè il sabato o, addirittura, la domenica. Non si tratta di una sparuta minoranza: secondo quanto stimato da Ilvo Diamanti in un suo libro del 2013 ("Un salto nel voto", pagine 24-27, Laterza) fra il 2006 e il 2013 la percentuale degli elettori che ha deciso il voto il sabato o la domenica è stata pari all'8,4% nel 2005, al 9,4% nel 2008, per salire al 13,2% del 2013. È vero: l'elettorato "di appartenenza", soprattutto dopo il 2008, si è drasticamente ridotto, anche se gli interpellati che ancora nel 2013 dicevano di non avere mai avuto dubbi su quale partito votare erano ancora il 54,1% (contro il 65,7-66,6% del 2006-2008). Il tutto, se rapportato (con una nostra rielaborazione) alle percentuali degli aventi diritto al voto, ci restituisce questo quadro: gli elettori "senza dubbi" costituivano nel 2013 il 40,7% del totale (2006-2008: 53,6-54,9%); quelli che hanno deciso almeno un mese prima sono stati fra l'8,7% (2008) e il 10,2% (2006; 9,6% nel 2013); i convinti dalla campagna elettorale, dunque (che hanno deciso nel periodo che va dalla presentazione delle liste leggi tutto

Oltre le elezioni. Le sfide del governo che verrà: il debito pubblico

Gianpaolo Rossini - 31.01.2018

La seconda sfida sulla quale sarà chiamato a misurarsi il prossimo governo riguarda la finanza pubblica. Come nel precedente articolo sulle migrazioni (https://www.mentepolitica.it/articolo/oltre-le-elezioni-le-sfide-del-governo-che-verr-ius-soli-e-immigrati/1311) iniziamo con nude cifre. Nel 2017 il debito lordo del settore pubblico in Italia si attesta attorno a 1.32 volte il Pil mentre quello netto è 1.13. Nello stesso anno quello pubblico federale lordo (non comprensivo di quello di stati e amministrazioni locali) degli Usa è 1.08 volte il Pil, netto 0.82. Se considerassimo il debito pubblico lordo totale (federale + locale) degli Usa avremmo cifre un po’ più alte di quelle italiane. In Giappone il debito pubblico lordo è 2. 39 volte il Pil, quello netto 1.20.  In Germania è 0.64 (netto 0.43) e in Francia è 0.97 (netto 0.90).  La lettura di questi numeri fornisce informazioni inedite sul debito pubblico netto.  Ma cos’è il debito pubblico netto? Perché è la grandezza che andrebbe considerata?  Il debito pubblico netto è la differenza tra i debiti e i crediti del settore pubblico. E’ ciò che rileva finanziariamente per gli stati come per ogni impresa, mentre meno rilevante è la cifra lorda. Il settore pubblico italiano possiede attività finanziarie (crediti) come  contante, valute,  depositi  bancari, prestiti del governo ad istituzioni europee, titoli obbligazionari e azionari, riserve tecniche assicurative e altro. Nel caso italiano la differenza tra le due valutazion leggi tutto

Il "miracolo" del 40%

Luca Tentoni - 27.01.2018

Molti si chiedono se è tecnicamente possibile conquistare la maggioranza assoluta alla Camera dei deputati (minimo 316 seggi) e in Senato (minimo 158) ottenendo il 40% dei voti. In teoria, lo è. I posti in palio nell'uninominale sono 232 per Montecitorio e 116 per Palazzo Madama, dunque, per assurdo, basterebbe vincerli tutti (anche con un solo voto di margine) e aggiudicarsi appena 84 seggi proporzionali alla Camera e 42 al Senato (corrispondenti, all'incirca, ad un partito del 22% nazionale). Naturalmente il nostro è un paradosso, però il punto che occorre chiarire è un altro. Non è il 40% dei voti (soglia magica già propria dell'Italicum) che improvvisamente può proiettare una coalizione (o il M5S) verso il traguardo del governo e di una maggioranza autosufficiente, ma il distacco dal secondo classificato. Se avessimo due blocchi come i principali partiti del 2008 (Pdl 37,4%, Pd 33,2%) ci troveremmo di fronte ad un buon raccolto nel proporzionale: rispettivamente 145 e 129 seggi. Per arrivare a 316 bisognerebbe aggiudicarsene 171 in un caso e 187 nell'altro, ovvero fra il 74% e l'81% dei collegi uninominali. Con quel distacco di appena 4 punti e le subculture ancora forti in alcune regioni, nessuno vincerebbe. Se invece avessimo un raggruppamento al 40% e il secondo al 25-26% le cose cambierebbero parecchio. Ferme restando le specificità locali, moltissimi collegi in bilico passerebbero al blocco leggi tutto

Una politica indecifrabile?

Paolo Pombeni - 24.01.2018

Difficile sfuggire al dovere di parlare di come evolve la sfida elettorale e soprattutto di ciò che ci attende dopo, se, come tutti o quasi credono, ci ritroveremo senza una maggioranza parlamentare di governo. I politici ovviamente non ne trattano, perché questo indebolirebbe la loro propaganda: ciascuno deve far finta che vincerà di sicuro.

Certo è molto complicato ragionare di politica in questo paese dove si sono persi i riferimenti basilari alle normali regole previste dalla politica e dalla Costituzione. E’ banale ricordare la sciocchezza secondo cui il presidente della repubblica dovrebbe dare l’incarico di formare il governo al partito più votato, quando si sa benissimo che è tenuto a darlo a chi risulta in grado di raccogliere una maggioranza parlamentare e di farlo sulla base di quello che gli hanno detto i rappresentanti dei partiti nelle consultazioni che è tenuto a fare. Se veramente dovesse dare l’incarico al leader del partito più votato, potrebbe risparmiarsi le consultazioni: gli basterebbe leggere i risultati che gli passa il Viminale.

Ovviamente può darsi che dalle consultazioni non emerga, almeno nella prima fase, l’indicazione di alcuna maggioranza possibile. E’ in questo caso che il presidente dà un “mandato esplorativo” al politico che ritiene in grado di leggi tutto

Election day e specificità del voto regionale

Luca Tentoni - 20.01.2018

L'"election day" è un modo per aumentare l'affluenza alle urne, concentrando più appuntamenti elettorali in uno solo (con un non trascurabile risparmio di denaro pubblico). Sul piano politico, come si accennava, l'affluenza della competizione generalmente più partecipata delle altre (quella politica) dovrebbe trainare il voto per le consultazioni che si svolgono lo stesso giorno. Si potrebbe ipotizzare, inoltre, che in presenza di un forte orientamento politico nazionale dell'elettorato, ci sia un fenomeno di sostegno ai raggruppamenti più "sulla cresta dell'onda" anche per le regionali. Non è detto che stavolta sia così, ma non possiamo neppure escluderlo. Quel che è certo, tuttavia, è che l'elettore non è più tanto legato al partito e alla coalizione come un tempo. È molto pragmatico e decide - persino se vota lo stesso giorno per due elezioni diverse - valutando caso per caso. Nel 2013, il 24-25 febbraio, in Lombardia, il centrodestra ottenne alla Camera il 35,7% dei voti (circa 2,05 milioni) contro il 29,9% dell'intera sinistra (centrosinistra più Rivoluzione civile; 1,7 milioni), i centristi il 12,1% (673mila), il M5S il 19,6% (1,12 milioni). Ebbene, lo stesso giorno, la coalizione di Maroni conquistò 2,33 milioni di voti di lista, più 128mila al solo presidente leghista. Una differenza di 400mila unità in un sol colpo. Così le liste per Ambrosoli (candidato dell'intera sinistra) conseguirono 2 leggi tutto

Dilemmi identitari e corsa alla visibilità

Paolo Pombeni - 17.01.2018

Gran brutta campagna elettorale. Le affermazioni a vanvera non si contano e si può fare solo una classifica fra quelle semplicemente avventate (tipo aboliamo le tasse universitarie, il canone Rai, il bollo auto, ecc.), quelle sloganistiche (aboliamo la Fornero, reintroduciamo l’art. 18 per tutti, ecc.) e quelle francamente preoccupanti perché mostrano che non si sa di cosa si parla (razza bianca in pericolo, islamizzazione incombente, 400 leggi da abolire subito, ecc.). Perché si è arrivati a questo punto? Gran bella domanda, come si usa dire.

Qui infatti siamo oltre la politica spettacolo, che è ormai un fenomeno con cui siamo abituati a fare i conti. Di quella rimane la rincorsa ai “testimonial” da inserire nelle liste, ammesso che nel bailamme delle attribuzioni si possa far posto anche a loro. Intanto però ci si prova facendo sapere in giro che si candiderà l’attore di successo (o presunto tale), l’astronauta che ha conquistato le prime pagine, il manager che può vantare successi, il filantropo che ha commosso il paese. Se non si riuscirà davvero a infilarli nelle liste in posizioni vincenti, almeno si farà sapere che “votano per noi”.

La rincorsa alle frasi roboanti e alle promesse buttate lì senza alcun previo ragionamento è un altro paio leggi tutto

2013-2018: di nuovo al punto di partenza?

Luca Tentoni - 13.01.2018

Può sembrare paradossale, ma probabilmente il 4 marzo avremo meno partiti in lizza che nel 2013. Il conteggio, ovviamente, riguarda tutti quelli coalizzati e quelli che, pur non avendo seggi, possono aspirare a raggiungere fra lo 0,2 e l'1% dei voti. La scorsa volta furono 22 più la lista "Amnistia, giustizia e libertà" di Marco Pannella (ferma allo 0,19%). Stavolta potrebbero essere 14 o 15: il M5S; quelli della coalizione di centrosinistra [nel 2013 erano quattro: Pd, Sel, Cd e Svp; stavolta potrebbero essere cinque: Pd, Insieme (socialisti-verdi), Più Europa (Bonino), Civica popolare (Lorenzin)]; quelli di centrodestra [nel 2013 ben otto liste: Pdl, Lega Nord, Fratelli d'Italia, Destra, Grande Sud-Mpa, Mir, Pensionati, Intesa popolare, Liberi per un'Italia equa; nel 2018 saranno di certo quattro - FI, Lega, FdI e Noi con l'Italia - ai quali potrebbero aggiungersene tre (animalisti, Energie per l'Italia e Rinascimento)]; Liberi e Uguali (al posto di Sel ma fuori dal centrosinistra, come a suo tempo Rivoluzione civile); un partito comunista; Forza nuova; Casapound. Rispetto alla scorsa volta mancano i centristi (Scelta civica, Udc e Fli si sono scissi e ricomposti altrove) e Fare per fermare il declino (Giannino). Nonostante questa ricchezza di simboli e sigle, furono "soltanto" dieci i partiti entrati alla Camera (quattro dei quali, però - Cd, leggi tutto

Un paese di creduloni?

Paolo Pombeni - 10.01.2018

Tutti o quasi si interrogano sulla stranezza di questa campagna elettorale in cui la corsa a chi la spara più grossa sta diventando spasmodica. Non che in assoluto sia una novità quella delle esagerazioni in campagna elettorale, ma sinora non ci era spinti tanto avanti, o meglio le stramberie erano state lasciate a personaggi di seconda fila ed a partiti tutto sommato marginali. Una generalizzazione sfrontata del fenomeno non si era ancora vista. In più questa volta c’è il patente disprezzo dell’invito più che sensato del presidente della repubblica a mantenere la propaganda in confini accettabili e a non avventurarsi in proposte che non hanno fondamento nella realtà.

Ce n’è dunque abbastanza per chiedersi cosa sia mai successo. Soprattutto la domanda che ci pare nessuno si sia fatto è come mai tutte le forze politiche siano convinte di trovarsi di fronte ad un paese di creduloni disposti a bersi qualsiasi favola si ammannisca loro. Naturalmente è piuttosto incredibile che ci si sia convinti che ormai l’opinione pubblica sia incapace di percepire il sentore di fantasia scatenata che produce proposte la cui realizzabilità è immediatamente sospetta.

E allora? La faccenda è, a nostro giudizio, seria e merita qualche riflessione. Dobbiamo partire dallo scomporre il problema, leggi tutto

Alle prese con la frammentazione

Paolo Pombeni - 06.01.2018

Il problema principale che affronta la politica italiana in questo momento è la necessità di fare i conti con il ritorno della frammentazione politica, per di più in presenza di un corpo elettorale che l’astensionismo ha già ristretto e minaccia di restringere ancora di più.

In astratto i Cinque Stelle sono l’unica area a non soffrire di questo problema. In astratto, perché in concreto bisognerà vedere cosa succede nel momento in cui il movimento deve aprirsi al massimo nel tentativo di guadagnare quella posizione di prima forza politica in parlamento, in assenza della quale inevitabilmente inizierà il suo declino. Da un lato infatti l’aspettativa di un suo successo spinge molti a confluire su di esso e il vertice a cercare volti noti da usare come calamite elettorali. Dal lato opposto però c’è da chiedersi come si comporterà questo afflusso eventuale di convertiti dell’ultima ora, non pochi dei quali sembrano farlo per interessi di successo personale, quando come è probabile M5S non disporrà da solo della maggioranza per governare. Non crediamo di essere perfidi nel temere che dai ranghi esplosi di queste rappresentanze possano arrivare i “responsabili” pronti, per il loro interesse di posizione individuale, a fare da stampella ad altre maggioranze. leggi tutto