Ultimo Aggiornamento:
18 maggio 2024
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Argomenti

La proporzionale e gli effetti sul sistema politico

Luca Tentoni - 25.03.2017

Ormai la legislatura è entrata nel suo ultimo anno di vita. A meno di grosse sorprese, si andrà a votare per il rinnovo di Camera e Senato con sistemi proporzionali non puri, ma quasi: le clausole di sbarramento per l'accesso alla ripartizione dei seggi e il lontanissimo premio di maggioranza per Montecitorio (per conseguire il quale servirebbe il 40% dei voti: una percentuale oggi inarrivabile per ogni partito o cartello elettorale) cambiano poco la sostanza della competizione. Si tratta di una novità assoluta nella storia della Seconda Repubblica. Sebbene una qualche forma di "gara" proporzionale si sia sempre mantenuta (nel 1994-2001 con la quota del 25% del Mattarellum e nel 2006-2013 con la ripartizione del 45% dei seggi - in ambito nazionale per la Camera e regionale per il Senato - fra i partiti e le coalizioni non vincitrici delle elezioni) l'offerta politica e del sistema di voto hanno prodotto una competizione fra due poli (nel 2013 tre e mezzo, con Scelta Civica più piccola di Centrosinistra, Centrodestra e M5S), vissuta a lungo "psicologicamente" dagli italiani come una scelta binaria. I partiti coalizzati, s'intende, hanno sempre mantenuto un approccio proporzionale o almeno "pro quota" nella definizione di candidature nei collegi uninominali, delle coalizioni e delle liste, però l'elettore medio leggi tutto

Il partito del governo

Paolo Pombeni - 22.03.2017

La grande campagna elettorale in vista delle elezioni del 2018 non conosce tregue, ma che riesca ad infiammare un pubblico che vada oltre le tifoserie dei vari candidati appare quantomeno dubbio. Ci sono naturalmente passaggi intermedi dove si amplieranno gli spazi di raccolta del consenso, ma è tutto da vedere. Non per caso c’è una attesa per vedere quanto mobiliteranno le primarie PD, che sono la prova che più potrebbe, almeno sulla carta, far intuire se e quanto l’opinione pubblica si faccia coinvolgere nello scontro in atto.

Ben più importanti saranno le amministrative, anche se non bisogna dimenticare che sono molto condizionate da fattori di contesto locale. Però verranno compulsate per capire che aria tiri soprattutto per i partiti anti-sistema, cioè i Cinque Stelle e i Leghisti, anche se non è sempre detto che i segnali che si potrebbero cogliere in quella occasione vengano confermati in elezioni che arriveranno più di nove mesi dopo. Soprattutto in un quadro generale in cui non è semplice prevedere cosa ci riserverà il futuro (pensiamo anche solo a questioni come la crisi economica, i flussi di migranti, la questione sicurezza) è molto rischioso esercitarsi in previsioni sulla tenuta o meno delle forze attualmente presenti in parlamento e di quelle che si vanno organizzando fuori. leggi tutto

La "prima coorte" elettorale della Repubblica

Luca Tentoni - 18.03.2017

C'è un segmento di elettorato che ha attraversato quasi mezzo secolo della storia repubblicana: quello di chi è nato nel decennio 1946-1955. La prima “coorte” ha caratteristiche particolari, diverse dalle generazioni precedenti e in buona parte anche dalle successive. Questi italiani si sono "socializzati" e sono entrati in contatto con la politica negli anni '60. Alcuni hanno vissuto attivamente il Sessantotto. Questa coorte ha fatto il suo ingresso nel "mercato elettorale" fra il 1968 (i soli nati nel 1946-1947: la maggiore età si conseguiva allora a 21 anni, abbassata a 18 anni nel '75) e il 1975 (regionali) - 1976 (politiche). Da subito, i "primi nati della Repubblica" si sono caratterizzati per un orientamento più laico e più di sinistra. Già nel 1972, un sondaggio (effettuato due anni prima del referendum) indicava che la percentuale dei "no" all'abolizione del divorzio (introdotto in Italia nel 1970) era intorno al 60% fra i nati nel decennio 1946-'55 (nostra rielaborazione dei dati di "Italia al voto. Le elezioni politiche della Repubblica", a cura di Luca Ricolfi, UTET 2012), mentre nell'intero campione era ancora al 44% (nel 1974, il 19 maggio, sarebbe finita 59,3 a 40,7 per il "no"). Nel passaggio fra le regionali del 1975 e le politiche del 1976 parte consistente di questa coorte andò a rafforzare l'elettorato del Pci. In quella occasione, la distanza leggi tutto

Renzi e il problema del partito

Paolo Pombeni - 15.03.2017

Ci sono modi diversi di analizzare la situazione attuale in cui versa Matteo Renzi, ma di conseguenza in cui versano anche i suoi avversari. A noi sembra si stia sottovalutando la questione del partito, che non può essere ridotta al folklore degli scontri mediatici.

Nell’analisi della politologia tradizionale, quella che per intenderci faceva capo a Maurice Duverger, c’erano classificazioni canoniche: i partiti si distinguevano in partiti di massa e partiti di quadri, mentre la cerchia di chi faceva riferimento ad un partito era distinta in elettori (coloro che si limitavano a votarlo), simpatizzanti (coloro che dichiaravano pubblicamente la propria scelta elettorale) e militanti (coloro che iscrivendosi formalmente al partito partecipavano alla formazione della sua volontà politica).

Basta ripercorrere queste classificazioni per capire come sia mutata la “forma partito” con cui Renzi deve fare i conti. Innanzitutto il PD secondo un approccio tradizionale dovrebbe essere considerato un partito di massa, mentre ci pare abbastanza evidente che sia ormai un partito di quadri. I nostalgici della “ditta” non si arrendono ed evocano “il nostro popolo” che fa volontariato alle feste di partito, ma ci vuole fantasia per considerare questa pur apprezzabilissima componente come una “massa”, soprattutto con una massa a cui si indirizzano e leggi tutto

Il voto dei giovani

Luca Tentoni - 11.03.2017

Durante la battaglia referendaria del 2016 si è parlato della difformità fra le due Camere; in particolare, si è rilevato che i deputati sono espressione di un corpo elettorale (formato da tutti i maggiorenni) più ampio rispetto a quello per il Senato (costituito, quest’ultimo, dagli italiani che hanno compiuto 25 anni d'età). In più, la distribuzione regionale dei seggi può (trascurando il fenomeno del "voto disgiunto" Camera-Senato, che appare non molto significativo) favorire la divaricazione fra i risultati e i rapporti di forza all'interno dei due rami del Parlamento. Ovviamente, con la campagna tutta concentrata sulla differenziazione del bicameralismo (e sull'Italicum, altro elemento che aumentava la differenza, essendo valido per la sola Camera dei deputati) si è però perso di vista un dato di fondo, che invece sarà fra le "chiavi" più importanti delle prossime elezioni politiche italiane: il fattore generazionale. Si tratta di un fenomeno non solo italiano: in Francia (alla quale si guarda in questo periodo con grande attenzione per i possibili sviluppi dell'elezione presidenziale) un sondaggio Elabe (condotto fra il 30 gennaio e l'8 febbraio 2017) ci spiega che - mentre l'elettorato di Emmanuel Macron è abbastanza omogeneo per classi d'età - le differenze fra voto giovanile si riscontrano soprattutto nel confronto fra Marine Le Pen e François Fillon: leggi tutto

La politica della corrida e quella del sopire e troncare

Paolo Pombeni - 08.03.2017

Che succede nella politica italiana? Forse abbiamo esaurito le definizioni e parlare di schizofrenia significa semplicemente tornare su un tema già affrontato in passato. Tuttavia è difficile trovare una definizione migliore nel momento in cui tutto sembra essere immerso nella convivenza di un clima di veleni e di scontri all’ultimo sangue, mentre al contempo sul versante governativo si procede secondo la famosa battuta del business as usual.

La novità relativa sembra consistere nell’avere fissato l’orizzonte temporale per la convivenza dei due contesti: la fine naturale della legislatura. Il premier Gentiloni l’ha annunciato e significativamente l’ha fatto “alla Renzi”, cioè nel contesto di un programma televisivo della domenica pomeriggio, con buona pace di quelli che ancora si affannano a discettare sulla centralità del parlamento. Ha mantenuto il basso profilo, perché in sostanza ha fatto sapere che c’è tanto da fare per tirare avanti la baracca, verità indubbia, ma non ha neppure provato a suscitare un qualche entusiasmo annunciando un progetto pilota su cui chiamare a raccolta il paese.

Sembra di capire che quello è un terreno che Gentiloni lascia in mano alla politica che si prepara al “dopo”. Peccato che prima di quel dopo ci sia da definire la manovra di bilancio, che tutti sanno non potrà essere di ordinaria amministrazione, leggi tutto

Il voto di chi (forse) non vota

Luca Tentoni - 04.03.2017

In occasione delle elezioni amministrative che, nella prossima primavera, riguarderanno 25 capoluoghi di provincia e molti altri comuni, il tasso di partecipazione elettorale sarà - come al solito - al centro dell'attenzione dell'opinione pubblica per un giorno o due, in attesa dei risultati di candidati sindaci e partiti. In seguito, l'astensionismo tornerà ad essere un argomento per pochi studiosi di sociologia elettorale. Eppure, come ha dimostrato anche il recente referendum del 4 dicembre 2016 sul progetto di revisione costituzionale, la mobilitazione di quella fascia dell'elettorato che non vota sempre può essere importante per rafforzare una tendenza o mutarla. In Italia, come in molte altre democrazie, ci sono diversi segmenti dell'elettorato: quello "fedele", che partecipa a tutte le competizioni (o alla maggior parte di quelle in programma: in occasione di alcuni referendum, a causa dell'invito dei partiti ad astenersi o dello scarso interesse del quesito, l'affluenza scende fino al 30%: nel primo caso, però, si tratta di un non voto in qualche modo "partecipativo", perché tendente a far fallire la possibile vittoria degli abrogazionisti referendari) e che oggi si può quantificare - a livello nazionale - poco sotto o intorno al 50% degli aventi diritto al voto; quello "intermittente", che si mobilita di più in certe occasioni (le politiche), leggi tutto

Coazione a ripetere

Paolo Pombeni - 01.03.2017

La scissione nel partito democratico farà parte di quelle cose molto difficili da spiegare se si prescinde dagli aspetti psicologici che tengono insieme i raggruppamenti politici.

Dal punto di vista dell’ideologia non si vede bene cosa distinguerebbe l’orizzonte del PD da quella dei “Democratici e progressisti” (DP). Uno dei promotori della scissione, l’on. Speranza, ha detto che consiste nel fatto che il nuovo partito vuole mettere il lavoro al primo posto. Detta così è una affermazione che si ritrova tranquillamente anche nelle prese di posizione del PD, e, per la verità, anche in quelle di partiti del centro destra o nel M5S. E’ piuttosto difficile immaginare che in tempi di democrazia di massa ci sia un partito che afferma di disinteressarsi al problema del lavoro.

Naturalmente si può sostenere che c’è modo e modo di farlo, e ciò è indubbiamente vero, ma è altrettanto vero che DP non ha spiegato al momento in quale modo esso sarebbe in grado di proporre politiche di maggiore successo, né perché queste eventuali ricette se buone dovrebbero essere rigettate dal PD.

Lasciamo ovviamente fuori le lagne su chi è di destra e chi è di sinistra, perché sono autoaffermazioni di legittimità che non hanno alcun senso. Se davvero ci fosse una ricetta semplice ed efficace leggi tutto

La "quadriglia" repubblicana

Luca Tentoni - 25.02.2017

La scissione del Partito democratico ha riproposto il problema della frammentazione politica. Il sistema dei partiti della Prima Repubblica aveva almeno due caratteristiche diverse rispetto a quello della seconda: l'indice di bipartitismo (cioè la percentuale dei voti ai primi due soggetti politici) più alto nel periodo 1948-'92 che nel 1994-2013 e un sistema elettorale puramente proporzionale (a fronte del Mattarellum e del Porcellum che sono stati oggettivamente premianti per i partiti maggiori). A ben guardare i dati elettorali, tuttavia, la storia di 70 anni di Repubblica si può comprendere meglio se la si divide in almeno quattro periodi: due riguardano gli anni del primo sistema dei partiti e due quelli fra il 1994 e oggi. Nella "prima Repubblica dei partiti", che va dal 1948 al 1976, l'indice di bipolarismo passa dall'eccezionale 79,49 del duello Dc-Fronte Popolare del '48 ad un più ragionevole livello del 63-66% dei voti che resta immutato fino al 1976, quando un altro duello (Dc-Pci) lo riporta al 73,08. In questo periodo, il numero dei partiti con almeno l'1% dei voti è quasi sempre pari ad otto (7 nel 1948, 9 nel 1958, otto in tutti gli altri casi). Questi primi otto partiti ottengono fra il 93,57 e il 98,48% dei voti validi espressi, con una media intorno al 96,7%. in quella che comprende i soggetti politici leggi tutto

Le incognite della riforma elettorale

Luca Tentoni - 18.02.2017

In queste settimane le forze politiche e il Parlamento sono chiamati a riscrivere le leggi elettorali, dopo la sentenza 35/2017 della Corte Costituzionale. Un accordo appare improbabile, anche perché non è chiaro cosa si vuole dal sistema "che trasforma voti in seggi". Alla base della scelta di un modello esistente o dell'elaborazione di un nuovo meccanismo c'è sempre uno scopo: nel 1948, quello di rappresentare i partiti e la società così com'erano (in un sistema proporzionale, inoltre, la centralità della Dc aumentava le possibilità che una coalizione di governo non potesse non ricomprendere i democristiani); nel 1953, la cosiddetta "legge truffa" (o "legge Scelba") tendeva a premiare l'unica possibile coalizione di partiti che potesse raggiungere il 50% più uno dei voti (quella formata da Dc e alleati minori centristi) isolando le estreme di destra e di sinistra per sottorappresentarle e, soprattutto, recuperare alla Dc - in forma di "voto utile" - il consenso andato "in libera uscita" a destra nel Mezzogiorno in occasione delle amministrative del '52; nel 1994, invece, uno scopo politico non c'era: in presenza del pronunciamento popolare sulla legge elettorale del Senato e in pieno sgretolamento del sistema dei partiti, si adottò un meccanismo simile al "ritaglio referendario" (in quella occasione ci fu chi si illuse, leggi tutto