Argomenti
Verso le comunali dell'11 giugno - 1) Il quadro d'insieme
Il voto amministrativo del 2017 riguarderà circa un quinto della popolazione e del corpo elettorale, un quarto dei comuni capoluoghi di provincia, un ottavo circa dei comuni. L'11 giugno (con eventuale ballottaggio, ove previsto, il 25 giugno) si voterà infatti in 1021 centri, 858 dei quali con popolazione inferiore a 15mila abitanti. I comuni superiori sono dunque 163. Oltre ai 25 capoluoghi di provincia ne abbiamo altri 138, così ripartiti: 52 fra 15 e 20 mila abitanti, 47 fra 20 e 30mila, 20 fra 30 e 40mila, 12 fra 40 e 50mila, 4 fra 50 e 75mila (Legnano, Carrara, Portici, Molfetta) e 3 oltre 75mila (Sesto San Giovanni, Guidonia Montecelio e Pozzuoli). Fra i comuni con una popolazione compresa fra 20 e 30mila abitanti, venti sono al Nord, cinque al Centro, tredici al Sud, nove nelle Isole. Fra gli altri 39 non capoluoghi (da 30mila abitanti in su) ce ne sono tredici del Nord, dieci del Centro, tredici del Sud e tre delle Isole. In questa fascia di comuni, dunque, il test sembra particolarmente importante, perchè le elezioni amministrative coprono abbastanza bene le diverse realtà del Paese. I comuni capoluogo che vanno alle urne, invece, sono stavolta prevalentemente settentrionali: quattordici su venticinque (al Centro sono quattro, al Sud quattro, nelle Isole tre). Ciò nonostante, come vedremo nelle prossime puntate di questo lungo viaggio nelle amministrative del 2017, leggi tutto
Alternativa Berlusconi?
Le riflessioni sul tripolarismo vanno di moda. Ancora oggi per molti disegnano uno scenario di ingovernabilità che dopo le prossime elezioni ci costringerà rapidamente a tornare alle urne. Iniziano ad ingrossarsi però le fila di quelli che pensano ad una soluzione di sblocco con il prevalere di una coalizione di centro destra grazie alle abilità (taumaturgiche?) di Silvio Berlusconi.
Il ragionamento che si fa è più o meno questo, in uno scenario che vuole ragionare per classici blocchi evitando le coalizioni trasversali imprudentemente marchiate come “inciuci”. In assenza di informazioni certe su come sarà la futura legge elettorale, ci sono due ipotesi: la prima è che alla fine si introduca un premio a chi guadagna almeno il 40% dei suffragi (coalizione o lista si vedrà); la seconda è che si rimanga ad un proporzionale sostanzialmente puro. Il Movimento Cinque Stelle in questo quadro è quello messo peggio nonostante al momento sia accreditato dai sondaggi come il partito con la più alta percentuale di consensi. Nel caso di un premio a chi supera il 40% dei voti si giudica improbabile che possa far un salto nei consensi di almeno 10 punti. Nel caso di un proporzionale classico, può risultare il partito più votato, ma siccome si dice indisponibile a coalizzarsi, leggi tutto
Il “doppio turno” francese
Il 23 aprile i francesi voteranno per il primo turno delle elezioni presidenziali. L'articolo 7 della loro Costituzione specifica che il Capo dello Stato "è eletto a maggioranza assoluta dei voti espressi. Se tale maggioranza non viene conseguita al primo scrutinio, si procede ad una nuova votazione, nel quattordicesimo giorno seguente. Possono presentarsi solo i due candidati che, a parte un eventuale ritiro, hanno ottenuto più voti al primo turno". Nella storia della Francia, da quando, nel 1962, la riforma costituzionale voluta da Charles De Gaulle ha reintrodotto (e non introdotto ex novo: il 10 e l'11 dicembre 1848, infatti, Carlo Luigi Napoleone Bonaparte era stato eletto col 74,31% dei voti espressi, pari a 5.587.759 su 7.542.936 votanti) l'elezione diretta del Presidente della Repubblica, nessun presidente è stato mai eletto al primo turno: nel 1965 (5-19 dicembre) De Gaulle ebbe il 44,65% dei voti (andò al ballottaggio - vincendolo col 55,2% dei suffragi popolari - con François Mitterrand, giunto secondo col 31,72%); nel 1969 (1-15 giugno) Georges Pompidou ottenne il 44,47% (Alain Poher 23,31%), vincendo poi col 58,21%; nel 1974 (5-19 maggio) fu Mitterrand a classificarsi inizialmente primo, col 43,24%, ma Valéry Giscard d'Estaing (32,6% al primo turno) vinse al ballottaggio col 50,81%; nel 1981 (26 aprile-10 maggio) fu invece Mitterrand (25,85% al primo turno, 51,76% al secondo) a battere Giscard d'Estaing (28,31% al primo turno, 48,24% al secondo); Mitterrand vinse inoltre nel 1988 (24 aprile-8 maggio) leggi tutto
Le difficoltà della politica italiana
Sappiamo tutti che ormai gran parte dei media guardano alla lotta politica come fosse uno dei tanti concorsi da sottoporre al televoto, cioè alla consacrazione di chi possa essere più “personaggio” e come tale risultare più “simpatico” (o, diciamola tutta, più utile alla sorda lotta fra gruppi di potere che sta portando l’Italia in una situazione molto difficile). Se si leggevano le cronache della assemblea del PD che doveva validare le candidature alle primarie se ne aveva una netta riprova.
Dire che non si è capito quale confronto politico presentassero è un eufemismo, perché tutto si è concentrato su battute che cercavano di muovere la pancia dei militanti sul discorso piuttosto fumoso con cui si voleva stabilire se il partito avesse abbandonato il “nostro popolo” (Orlando) o se il nostro popolo avesse abbandonato il partito per andare più avanti (Renzi). Qualsiasi persona abituata a ragionare di politica sa che con questi discorsi non si risolverà alcuno dei nostri problemi. Il guaio è che lo sanno anche i due contendenti, che però ritengono di non poter mettere veramente i loro concittadini di fronte ad una realtà difficile.
La cosa curiosa è che quella realtà è già nota a tutti: il paese non ha speranza di andare avanti così, leggi tutto
Appunti sulla crisi della democrazia
Alla vigilia di una stagione di importanti appuntamenti elettorali (in Francia, le presidenziali e le legislative; in Germania, le elezioni per il Bundestag; in Italia, le amministrative e - a fine anno o comunque all'inizio del prossimo - le politiche) ci si interroga sullo stato delle nostre democrazie, sottoposte non ad un normale processo di adattamento ai tempi, ma stressate da una crisi economica che ha diviso ed esasperato la società, introducendo nuove dimensioni di conflitto. Se da un lato le famiglie politiche tradizionali spesso non riescono a canalizzare lo scontento, la protesta e neppure a soddisfare del tutto la semplice richiesta di un maggior ascolto che viene dalla società, dall'altro si affermano soluzioni apparentemente facili, tanto seducenti quanto ricche di pericolose controindicazioni. Il più delle volte assistiamo a un voto marcato dalla sfiducia verso gli uscenti, più che dall’adesione a soluzioni politiche, economiche e sociali alternative: ecco perchè il consenso ad alcuni partiti antisistema sembra del tutto anelastico e impermeabile rispetto a vicende e a situazioni che invece (a parità o somiglianza di episodi) colpiscono duramente sul piano elettorale i partiti tradizionali. Inoltre, alla scarsa affluenza alle urne si accompagna un tasso di fiducia nei partiti e nella classe politica mai così basso leggi tutto
Tafazzi fra i quadri del PD?
L’osservatore che non tifa per nessuno dei contendenti rimane sconvolto a vedere le reazioni di molti quadri del PD per l’esito delle votazioni congressuali nei circoli del partito, tanto da chiedersi se non sia il mitico Tafazzi, quel personaggio che predilige farsi male da solo, il modello a cui essi si ispirano.
I risultati dei circoli possono ovviamente piacere o meno, ma è doveroso chiedersi cosa sia successo anziché perdere tempo a strologare su complotti, forzature e quant’altro. Dovrebbe essere elementare che a non molti mesi dalle elezioni nazionali (ed a breve ad una tornata di amministrative) si facesse una riflessione sul danno che si procura al proprio partito descrivendolo come un’accolita più o meno di venduti e/o sprovveduti, da cui i migliori se ne sono andati e in cui vigono le più spregiudicate tecniche di manipolazione.
Francamente non si vede su cosa possano basarsi queste analisi. Non che nei partiti manchino anche giochi spregiudicati, difficoltà di permanenza per le anime belle e via dicendo, ma è una realtà antica che è esistita da tempo, da cui hanno tratto beneficio anche coloro che se ne sono andati sbattendo la porta (a tutt’oggi senza avere dato giustificazioni più convincenti dell’antipatia per Renzi). Dunque non leggi tutto
La diaspora liberaldemocratica
Il giorno successivo alle celebrazioni del sessantesimo anniversario della Comunità europea, il 26 marzo scorso, si ricordava - molto in sordina, peraltro - la scomparsa di Ugo La Malfa (avvenuta nel 1979). Il leader repubblicano era uno dei più convinti europeisti, però la sua eredità politica - e in generale quella dei liberal-democratici, degli azionisti e dei liberali italiani - sembra essersi smarrita nella Seconda Repubblica, diluita in grandi contenitori partitici di diversa ispirazione ideale. Al Parlamento europeo, le grandi famiglie socialista e popolare sono composte da molti rappresentanti italiani, ma l'ALDE (il gruppo liberaldemocratico erede dell'ELDR) no. Repubblicani e liberali, ai quali potremmo aggiungere, con tutte le riserve possibili, i Radicali (i tre partiti diedero vita ad una lista comune alle europee del 1989, che però ottenne solo il 4,4%) hanno sempre rappresentato un'"Italia di minoranza". I percorsi politici di Pri e Pli, che sono stati comuni negli anni Cinquanta, si sono però distinti e allontanati nettamente con l'approssimarsi della stagione del centrosinistra; negli anni Settanta, inoltre, il ruolo del Pri nell'incontro fra Dc e Pci fu ben lontano dall'atteggiamento che i liberali assunsero nei riguardi di quella operazione politica. Con la fine del decennio e l'avvio della stagione del pentapartito, tuttavia, repubblicani e liberali si riavvicinarono, giungendo persino leggi tutto
Partiti di lotta e di governo?
Lo stereotipo del partito di lotta e di governo viene fatto risalire agli anni Settanta e alla leadership di Berlinguer che voleva avvicinare quantomeno il PCI all’area governativa senza che questo mettesse in crisi la sua immagine di formazione in lotta contro il “sistema”. In verità si tratta di quello che una volta si chiamava “doppiezza” comunista: ai tempi della fondazione del sistema repubblicano e dei governi di larga coalizione, quando Togliatti voleva l’accordo con la DC senza rinunciare al controllo delle proteste di piazza. Si potrebbe risalire ancora più indietro, per esempio alla partecipazione del partito comunista francese ai governi del Fronte Popolare nel 1936, perché sempre si presenta a sinistra il tema di come far convivere la spinta a qualche radicalismo rivoluzionario con la necessità di praticare qualche forma di gradualismo una volta che si entri nella famosa stanza dei bottoni.
Anche qui, per essere realisti, bisogna aggiungere che il tema non va circoscritto ai partiti di sinistra. A suo modo il problema ce l’aveva anche la DC, che dovette più di un volta far convivere le richieste del massimalismo clericale (che portava voti) con l’esigenza di mostrare responsabilità nella gestione dei problemi concreti del paese (ciò che la legittimava rispetto alle classi dirigenti del paese). leggi tutto
La proporzionale e gli effetti sul sistema politico
Ormai la legislatura è entrata nel suo ultimo anno di vita. A meno di grosse sorprese, si andrà a votare per il rinnovo di Camera e Senato con sistemi proporzionali non puri, ma quasi: le clausole di sbarramento per l'accesso alla ripartizione dei seggi e il lontanissimo premio di maggioranza per Montecitorio (per conseguire il quale servirebbe il 40% dei voti: una percentuale oggi inarrivabile per ogni partito o cartello elettorale) cambiano poco la sostanza della competizione. Si tratta di una novità assoluta nella storia della Seconda Repubblica. Sebbene una qualche forma di "gara" proporzionale si sia sempre mantenuta (nel 1994-2001 con la quota del 25% del Mattarellum e nel 2006-2013 con la ripartizione del 45% dei seggi - in ambito nazionale per la Camera e regionale per il Senato - fra i partiti e le coalizioni non vincitrici delle elezioni) l'offerta politica e del sistema di voto hanno prodotto una competizione fra due poli (nel 2013 tre e mezzo, con Scelta Civica più piccola di Centrosinistra, Centrodestra e M5S), vissuta a lungo "psicologicamente" dagli italiani come una scelta binaria. I partiti coalizzati, s'intende, hanno sempre mantenuto un approccio proporzionale o almeno "pro quota" nella definizione di candidature nei collegi uninominali, delle coalizioni e delle liste, però l'elettore medio leggi tutto
Il partito del governo
La grande campagna elettorale in vista delle elezioni del 2018 non conosce tregue, ma che riesca ad infiammare un pubblico che vada oltre le tifoserie dei vari candidati appare quantomeno dubbio. Ci sono naturalmente passaggi intermedi dove si amplieranno gli spazi di raccolta del consenso, ma è tutto da vedere. Non per caso c’è una attesa per vedere quanto mobiliteranno le primarie PD, che sono la prova che più potrebbe, almeno sulla carta, far intuire se e quanto l’opinione pubblica si faccia coinvolgere nello scontro in atto.
Ben più importanti saranno le amministrative, anche se non bisogna dimenticare che sono molto condizionate da fattori di contesto locale. Però verranno compulsate per capire che aria tiri soprattutto per i partiti anti-sistema, cioè i Cinque Stelle e i Leghisti, anche se non è sempre detto che i segnali che si potrebbero cogliere in quella occasione vengano confermati in elezioni che arriveranno più di nove mesi dopo. Soprattutto in un quadro generale in cui non è semplice prevedere cosa ci riserverà il futuro (pensiamo anche solo a questioni come la crisi economica, i flussi di migranti, la questione sicurezza) è molto rischioso esercitarsi in previsioni sulla tenuta o meno delle forze attualmente presenti in parlamento e di quelle che si vanno organizzando fuori. leggi tutto