Ultimo Aggiornamento:
18 maggio 2024
Iscriviti al nostro Feed RSS

Argomenti

L'anno che verrà

Luca Tentoni - 17.12.2016

La fine della campagna referendaria e l'insediamento del governo Gentiloni non hanno portato al Paese la serenità che sarebbe opportuna per superare mesi di aspre contrapposizioni. Nonostante l'azione del Capo dello Stato e l'indole moderatrice del nuovo Premier, l'anno che ci attende sarà contraddistinto dal proseguimento dell'ormai eterna battaglia elettorale. La prima metà del 2017, infatti, sarà caratterizzata dal congresso del Pd e da due appuntamenti elettorali: uno con le amministrative (si voterà in un migliaio di comuni), l'altro con i referendum abrogativi (sui licenziamenti - in pratica sull'articolo 18 - sui voucher nel lavoro accessorio, sulla responsabilità solidale in materia di appalti) ai quali molto probabilmente la Consulta darà il via libera entro il 20 gennaio. Sempre la Corte Costituzionale sarà protagonista di un altro passaggio-chiave della legislatura: la pronuncia sull'Italicum. Le forze politiche attendono con ansia la sentenza - che però non arriverà prima del 24 gennaio - e che potrebbe portare a tre esiti possibili: 1) le obiezioni di costituzionalità potrebbero essere dichiarate inammissibili (in fondo la legge non è ancora stata applicata ed è difficile valutare se leda dei diritti); 2) la questione di legittimità costituzionale potrebbe essere respinta, lasciando la legge inalterata; 3) potrebbero, infine, essere accolte una o più censure, tra le quali quella sul ballottaggio (non è chiaro con quali conseguenze: dipenderebbe dalle argomentazioni della Corte). leggi tutto

Un governo di transizione?

Paolo Pombeni - 14.12.2016

E’ troppo semplicistico liquidare il governo Gentiloni come “fotocopia” o come “avatar” di quello Renzi. La situazione è ben più complessa e proviamo ad analizzarla.

Il primo dato è prendere consapevolezza che è stata rifiutata dalla maggioranza delle forze politiche qualsiasi ipotesi di un governo istituzionale di tregua. Basandosi su una analisi tutta da verificare, quella che vorrebbe interpretare il risultato referendario come bocciatura irreversibile del renzismo, coloro che più o meno apertamente si sono intestati quel risultato hanno ritenuto che fosse conveniente costringere la compagine renziana a continuare a logorarsi al governo. Di qui la sostanziale preclusione ad avere una soluzione che consegnasse il passato alla storia varando una compagine che apparisse e possibilmente fosse al di sopra dei conflitti politici attuali,  in attesa che fossero le urne a decidere la nuova geografia politica del potere. Aggiungiamoci subito che questa soluzione non andava bene neppure al premier disarcionato malamente dal risultato referendario.

Si doveva di conseguenza varare un governo politico che avesse a sostegno una maggioranza parlamentare: impresa molto complicata quando si era in presenza del partito di maggioranza relativa dilaniato da lotte interne e perennemente sull’orlo di una crisi di nervi.

Al tempo stesso questo governo doveva apparire come una costruzione solida e non come un tappabuchi tanto per far passare il tempo necessario per tornare alle urne. leggi tutto

E adesso?

Paolo Pombeni - 10.12.2016

Che in democrazia il voto popolare debba sempre essere rispettato come determinante è una ovvietà. Ritenere che sia un metro infallibile per giudicare la bontà o meno di una causa è una sciocchezza smentita dalla storia: vox populi, vox Dei è un aforisma da cui guardarsi. Ma su questo la riflessione è stata più che latitante, preferendo, per spiegarsi il grande successo dei contrari alla riforma costituzionale, rincorrere le spiegazioni più banali: quelle in politichese puntate sulla “antipatia” di Renzi, e quelle sociologiche che hanno attribuito la preponderanza del sì alle zone prospere e quella del no alle zone a più forte depressione economica.

Ci permettiamo di chiamare in campo qualche altro elemento, perché, se davvero il nostro paese vuole uscire da questa prova con qualche guadagno, è opportuno che si lasci alle spalle l’orgia di anticultura che ha connotato la passata campagna politico-elettorale.

Un primo dato da tenere in conto potrebbe essere la singolare posizione di una parte della sinistra che si è buttata a magnificare il consenso popolare al rigetto della riforma marcata Renzi, sostenendo che l’attuale segretario del PD non aveva capito da che parte stava il popolo, giudicato ovviamente sano. Singolare che quando quello stesso popolo votava massicciamente per Berlusconi avesse passato il suo tempo a parlare di una opinione pubblica drogata e manipolata. leggi tutto

Geografia referendaria

Luca Tentoni - 07.12.2016

L'esito del referendum costituzionale ci restituisce una geografia elettorale non troppo diversa nelle tendenze rispetto alle politiche del 2013 e soprattutto alle europee del 2014, ma evidenzia alcune novità (fra tutte, l'affluenza al 68,5%) che a nostro avviso spiegano molto di ciò che è accaduto nel Paese il 4 dicembre. Il primo dato è sorprendente - a dimostrazione del fatto che le coincidenze, talvolta, hanno un valore maggiore di quello che gli attribuiamo - e riguarda il potenziale di voto dello schieramento del “sì” alle europee 2014 (Pd più centristi), raffrontato a quello del “sì” abrogativo della legge sul divorzio (base di partenza di Dc e Msi il risultato delle politiche 1972). Fanfani partiva, nel '74, dal 47,33% e giunse al 40,74% (-6,6%); Renzi, 42 anni dopo, è partito dal 47,31% delle europee ed è giunto al 40,89% (-6,4%). Lo stesso Craxi, che nel 1985 vinse il referendum sulla scala mobile partendo dal 58,62% delle precedenti politiche, ebbe una percentuale dei "no" pari al 54,32% (-4,3%). In altre parole, in tutti questi casi i leader hanno pagato un dazio. Ma con una differenza: la coalizione di Craxi godeva di un consenso largamente maggioritario nel Paese e nelle urne oltre che in Parlamento, mentre quelle di Fanfani e Renzi partivano sotto quota 50% ed erano costrette a rimontare. In un articolo precedente per Mentepolitica ("Geografia pre-referendaria":  http://www.mentepolitica.it/articolo/geografia-pre-referendaria/1019) leggi tutto

Passata la tempesta

Paolo Pombeni - 03.12.2016

Anche se scriviamo questo articolo prima del fatidico 4 dicembre, esso sarà letto anche dopo, quando l’esito del voto referendario sarà noto e si inizierà, speriamolo, a ragionare su come disintossicare il paese dalle droghe e dai veleni che gli sono stati iniettati in questi lunghi mesi di scontri che definire “politici” sarebbe troppo generoso.

Ci permettiamo di richiamare l’attenzione sulle precondizioni che hanno indebolito il sistema italiano rendendolo sin troppo recettivo alla seduzione delle droghe messe in libera vendita in occasione del referendum. Temiamo che senza una presa di coscienza di queste debolezze strutturali non ci sarà ricostruzione possibile: e quella ricostruzione sarà necessaria qualunque sia l’esito della battaglia.

Va di moda cavarsela sempre con attacchi al “populismo” come se si trattasse di un virus importato dall’esterno. Forse è il caso di ricordare che la delegittimazione del nostro sistema ha una storia lunga, costantemente tenuta viva da un complesso di forze culturali che hanno costruito gli stereotipi su cui è attecchito quel complesso di richiami di pancia il cui successo comincia ad impensierire, per fortuna, chi ama ancora ragionare di politica.

Cominciamo dalla questione della “casta”. Dipingere la classe politica come un complesso di corrotti e intrallazzatori non è una invenzione dei grillini. leggi tutto

Primarie a destra: l'Italia non è la Francia

Luca Tentoni - 26.11.2016

Per la prima volta, i partiti del centrodestra francese stanno facendo scegliere agli elettori il proprio candidato all'Eliseo. Il primo turno di votazione si è svolto domenica 20 novembre. Accedono al ballottaggio François Fillon e Alain Juppé; l'ex Capo dello Stato Nicolas Sarkozy, invece, è giunto al terzo posto, quindi è rimasto escluso dal secondo turno (rimandiamo, per un approfondimento, all’articolo di Michele Marchi per Mentepolitica del 23 novembre scorso: "Primarie francesi 2016: un ciclone Fillon" (http://www.mentepolitica.it/articolo/primarie-francesi-2016-un-ciclone-fillon/1034). La partecipazione al voto è stata elevata (circa 4 milioni di elettori) anche considerando che si trattava della prima esperienza di elezioni primarie per questa area politica (i socialisti, invece, hanno adottato da anni questo metodo di selezione). Da tempo, in Italia ci si chiede se quel che resta della CDL sia in grado di organizzarsi non solo per costituire una coalizione o (cosa più difficile, se non impossibile) un "listone unico" da presentare alle elezioni, ma anche se sia possibile dar vita a "primarie" aperte agli elettori di area. Le difficoltà non sono di carattere organizzativo (o lo sono solo marginalmente) perchè il nodo è politico. In primo luogo, bisognerebbe stabilire se tutti i candidati sarebbero disposti ad accettare (come in Francia è avvenuto) di riconoscere il risultato sia pure in presenza di quel 23% di votanti leggi tutto

La politica e il "consumismo mediatico"

Luca Tentoni - 19.11.2016

Il dibattito sui cambiamenti d'orientamento dell'elettorato si è fin qui incentrato sulla definizione di "populismo". Spesso, dunque, si è data una connotazione (positiva o, più spesso, negativa) ad un fenomeno che invece, a nostro avviso, può essere studiato anche da punti di osservazione diversi. Uno di questi riguarda la "società della comunicazione". La caratteristica del nostro tempo è la velocità, ben rappresentata dall'esigenza di avere connessioni internet sempre più rapide e potenti. L'elettorato - sia quello che partecipa, sia quello che non va alle urne - sembra accomunato dalla necessità di ottenere dalla politica risposte veloci e possibilmente (almeno all'apparenza) efficaci. Questa esigenza mette in difficoltà tutte quelle forze politiche che non riescono a semplificare il proprio messaggio, a competere su un piano comunicativo che è fatto spesso di sintesi estreme, di slogan. La critica nei confronti delle élites e delle elaborazioni ideologiche tradizionali sembra far rimarcare la distanza fra il tempo e lo spazio argomentativo necessario ad elaborare e illustrare un progetto sociale e culturale e la necessità di una politica prêt-à-porter. Da un lato, non si ha una prospettiva seria se non c'è una "visione" del futuro traducibile in proposte concrete, dettagliate e realizzabili, perchè non basta chiedere all'elettore una fiducia pressochè "in bianco" leggi tutto

Riforma del Senato e gruppi parlamentari

Luca Tentoni - 12.11.2016

A tre settimane dal referendum costituzionale le possibilità che il testo di revisione sia approvato dal popolo sono - secondo i sondaggi - intorno alla metà. La nostra analisi, stavolta, verte perciò sulla possibilità (su due) che il Senato abbia diversa composizione e altri poteri rispetto all'attuale. Se vinceranno i "sì", i senatori avranno caratteristiche dissimili dagli attuali: oltre a quelli di nomina presidenziale e agli ex Capi dello Stato avremo 21 sindaci e 74 consiglieri regionali. A questo punto Palazzo Madama dovrà darsi un nuovo regolamento, organizzare il lavoro in un numero ristretto di Commissioni (sia per la riduzione delle materie di competenza, sia perché dividendo i cento senatori per le attuali quattordici Commissioni permanenti si avrebbero appena 7-8 membri per ciascuna) ma soprattutto si capirà - dal numero, tipo e consistenza dei gruppi parlamentari - "cosa" sarà davvero il nuovo Senato. La revisione costituzionale, infatti, lascia liberi i nuovi senatori di predisporre un regolamento interno conforme al procedimento legislativo della riforma, però - com'è ovvio - non può ingerirsi nel tipo di articolazione politica o geografica che i rappresentanti vorranno darsi. In altre parole, al momento di formare i gruppi parlamentari, potremmo avere almeno tre modalità di aggregazione dei senatori: per appartenenza ad un partito (come alla Camera), leggi tutto

Verso il D-Day?

Paolo Pombeni - 09.11.2016

Inutile girarci attorno: non il solo Renzi, ma tutti gli attori della sfera politica italiana hanno deciso che il 4 dicembre sarà il D-Day della seconda repubblica, quella che non ha saputo essere altro che una confusa premessa al cambio di stagione della lunga fase della prima. Curiosamente il referendum costituzionale assomiglia moltissimo a quello del 1946 nella scelta fra monarchia e repubblica.

Lo negano quasi tutti, accettando la narrazione infondata che allora non ci furono spaccature profonde nel paese, ma non fu così. Anche in quel caso la battaglia fu fra chi pensava che le vecchie egemonie si sarebbero conservate scegliendo la continuità della casa regnante e chi credeva che ormai fosse il tempo di aprirsi ad equilibri nuovi, pur fondati sui partiti di massa che anche all’epoca non è che incontrassero proprio i favori generali del pubblico (qualcuno si ricorderà pure del fenomeno del qualunquismo, i cui slogan non sono diversi e lontani da tanta retorica oggi circolante). Naturalmente il contesto era diverso, perché incideva e non poco l’esperienza traumatica della guerra e la vista delle macerie provocate da classi dirigenti che, mettiamola in termini soft, non si erano rivelate all’altezza dei tempi, ma i discorsi opposti sulla catastrofe che sarebbe arrivata con la vittoria della parte avversa abbondarono anche allora. leggi tutto

Geografia pre-referendaria

Luca Tentoni - 05.11.2016

A un mese dal referendum costituzionale, i sondaggi continuano a non delineare un vincitore netto (cioè oltre il 55% delle preferenze espresse). Al momento dello scrutinio sarà ovviamente fondamentale il dato sulla scelta prevalente ("sì" o "no") ma subito dopo, in sede di analisi, si cercherà di capire quanti voti si saranno spostati fra i vari "fronti", in quali regioni, in quali direzioni, oltre a quantificare la "fedeltà" degli elettori di ciascun partito. Oggi, ovviamente, abbiamo solo due tipi di indicazioni: quella dei sondaggi (che però sono solo fotografie del momento e "scontano" la presenza di molti indecisi) e delle precedenti elezioni nazionali. Nel primo caso, le rilevazioni condotte nei giorni scorsi da Demos&Pi, Scenaripolitici-Winpoll, Ixé ed EMG collocano il "sì" intorno al 47,2-48,1% e il "no" fra il 51,9 e il 52,8% tra quanti si esprimono. Si tratta di un margine troppo ristretto, suscettibile di variazioni: Demopolis, infatti, stima il “sì” al 49,5%, ma ammette che l’oscillazione possibile è fra il 46 e il 53%, mentre per il “no” è fra il 47 e il 54%. Nel secondo caso, invece, abbiamo dati certi, dai quali possiamo trarre indicazioni non per l'esito del voto, ma per avere una misura - sia pure un po' approssimativa - della forza delle coalizioni in lizza. leggi tutto