Ultimo Aggiornamento:
08 maggio 2024
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Lezioni siciliane?

Paolo Pombeni - 08.11.2017

Tutti a scrutare come antichi aruspici le viscere delle elezioni siciliane per indovinare cosa ci aspetterà in futuro nella politica italiana. Ovviamente sarebbe stupido sostenere che si tratti di elezioni con valenza puramente locale, ma ci pare altrettanto ingenuo sostenere che si tratti del preludio certo di quel che avverrà alle prossime elezioni nazionali. Passerà molta acqua sotto i ponti e bisognerà vedere cosa trasporteranno quelle acque.

Quel che vale la pena di esaminare è se quanto successo ci può indicare o meno alcune linee di tendenza che vanno al di là delle peculiarità siciliane. Il primo dato è sicuramente l’ampiezza dell’astensionismo. Siamo stati sotto il 50% ma a testimoniare che non è solo questione sicula c’è il dato contemporaneo delle amministrative ad Ostia dove si è stati sotto il 40%. Sommessamente ricordiamo che nelle ultime regionali in Emilia Romagna il 23 novembre 2014 aveva votato il 37,1%. Nelle amministrative dello scorso giugno solo nel caso di Cuneo si è superato di poco il 50% al primo turno, altrove si è rimasti sotto, talora anche sotto il 30%.

Non lo diciamo solo per rimarcare il fatto, rilevantissimo, che la volontà di partecipare direttamente alla scelta delle proprie classi dirigenti è drammaticamente in calo. Può dipendere da scarsa affezione per la politica, ma anche, temiamo leggi tutto

Centro-periferia, le radici storiche del voto lombardo-veneto

Luca Tentoni - 04.11.2017

Nelle ultime due settimane, l'esito dei referendum consultivi in Lombardia e Veneto è stato analizzato sotto moltissimi aspetti. L'Istituto Cattaneo, per esempio, ha confermato l'apporto essenziale della Lega (che con i suoi due presidenti di regione ha fatto da traino alla consultazione) e il contributo degli elettori del M5S (in misura maggiore rispetto a Pd e Forza Italia) all'affluenza. Si è sfiorato, in alcune analisi, un tema che tuttavia ci appare cruciale nella piena comprensione delle dinamiche di questo voto: il differente comportamento degli elettori dei capoluoghi rispetto a quello degli aventi diritto al voto che vivono negli altri comuni. La maggiore affluenza "in provincia" è dovuta alla forza della Lega, che nelle città principali ottiene sempre percentuali molto più basse che altrove, mentre nel caso del M5S c'è una maggiore omogeneità. L'"impronta leghista", dunque, spiega molto, ma a nostro giudizio non tutto. C'è una correlazione forte fra i voti al Carroccio e l'affluenza, ma c'è anche una differenza strutturale che risale addirittura alle elezioni per l'Assemblea Costituente. La "disomogeneità elettorale" che si riscontra confrontando le percentuali dei partiti nei capoluoghi e nei non capoluoghi è un elemento che in Lombardia e ancor più in Veneto ha contrassegnato l'intera storia repubblicana. Inoltre, non è affatto leggi tutto

Legge Rosato: aspettando la prova del budino

Paolo Pombeni - 01.11.2017

Si sa che, come dicono gli inglesi, la prova del budino consiste nel mangiarlo. La legge Rosato sulle normative elettorali non sfuggirà a questo destino, ma, anche qui come è d’uso, molti si affannano a prevedere in anticipo quale sarà l’esito di questa prova. Non si fa però troppo caso al fatto che come funzionerà la legge sarà determinato anche (forse in buona parte) da come verrà usata dalle forze in campo.

Tradurre semplicemente quanto previsto dai sondaggi in voti da contare secondo quanto previsto da questa normativa non ci sembra tenere conto delle novità che essa inserisce e del clima di fortissima mobilità politica che esiste nell’elettorato. Vediamo di fare qualche ragionamento.

Avremo i collegi uninominali e i listini corti, il che significa una forte visibilità delle persone che i vari partiti proporranno al loro elettorato. Certo un po’ di furberie nella confezione della legge sono pensate nell’ottica di elettori che mettono davanti a tutto la loro scelta ideologica: se io sono per il  centrodestra, per M5S, per il PD, per l’estrema sinistra, trangugerò qualsiasi designazione e non defletterò dalla scelta del mio simbolo del cuore. Ma sarà davvero così? Per una certa parte dell’elettorato è possibile che lo schema di leggi tutto

I costi di una politica senza riforme

Paolo Pombeni - 25.10.2017

La politica italiana si è concentrata su due vicende: lo scontro, o se si preferisce la baruffa sul problema della Banca d’Italia; l’interpretazione del significato da dare ai due referendum “regionalisti” di Lombardia e Veneto. Messa così può sembrare che non ci siano nessi fra le due vicende, che effettivamente sono di tipo assai diverso. Non fosse che per un punto, che ci pare molto importante: entrambe hanno radice nella cronica incapacità delle nostre classi dirigenti di affrontare il tema delle riforme di sistema.

Cominciamo con la vicenda della Banca d’Italia, dove sembra che tutta la questione sia riconfermare o meno il governatore Visco. Lasciamo perdere i populismi a cui si abbandonano i politici, a cominciare da Renzi che ciancia di un partito che sta coi risparmiatori invece che coi salotti. Concentriamoci invece sul rilievo fatto da lui e da tanti altri circa una certa inefficienza dei controlli di Bankitalia per impedire esiti disastrosi delle crisi bancarie.

Bene, la difesa dell’Istituto di via Nazionale è affidata ai numeri: elenchi di migliaia di ispezioni fatte, di centinaia di provvedimenti di vario genere che sono stati attivati. Dunque è difficile dire che non si è vigilato. Accusare di questo il governatore è giusto un diversivo.

Il problema leggi tutto

Crisi della politica e panacea "tecnica"

Luca Tentoni - 21.10.2017

Puntualmente, gli ultimi sondaggi (fra i quali quello di Demos&Pi per "Repubblica" del 16 ottobre) delineano un panorama partitico frammentato, nel quale nessun soggetto, da solo, è neppure in grado di arrivare a conquistare il 30% dei voti validi (per di più, in un contesto nel quale l'affluenza stimata alle politiche della primavera 2018 appare molto inferiore al 75% del 2013). Il "consenso sociale" dei singoli partiti è dunque molto più basso del proprio peso numerico: ciascuno dei due più forti (Pd e M5S) non arriva a rappresentare neppure il 20% degli aventi diritto al voto. Persino le possibili aggregazioni nei collegi uninominali della riforma elettorale "in fieri" sono accreditate di una quota di consensi che al massimo è pari o di poco superiore a un terzo dei consensi espressi dagli intervistati. Salvo le roccaforti storiche di partiti e coalizioni (alcune delle quali, peraltro, appaiono indebolite dalla smobilitazione e della fluidità elettorale dell'ultimo decennio) stiamo probabilmente per assistere, in molti collegi uninominali, a battaglie che si giocheranno e si vinceranno con margini di poche centinaia o migliaia di voti, con esiti talvolta prossimi al limite della casualità. L'indice di bipartitismo, alle prossime politiche, potrebbe attestarsi intorno a quota 53-54, contro il 51% del 2013, il 46% del 2001, il 41,6% del 1996, il 41,3% del 1994, il 45,8% dell'anno di transizione 1992. leggi tutto

L’enigma di una legge elettorale con scarso consenso

Paolo Pombeni - 18.10.2017

Per quanto i sostenitori della attuale proposta di legge elettorale si diano da fare per sostenere la tesi di un testo non perfetto, ma il migliore possibile, resta il fatto che si tratta di un sistema cervellotico e molto poco attraente. Non che questo sia abbastanza per augurarsi una debacle di Renzi, perché non si può fare a meno di ragionare su cosa ci attende dopo, ma bisogna pur ammettere che non si sta lavorando nel migliore dei modi.

Partiamo a ragionare dall’inizio. Giustamente il Capo dello Stato aveva sempre chiesto che si procedesse per una riforma elettorale basata su un ampio consenso parlamentare. Ci si era andati vicino con la proposta simil-tedesca (neppure quella un capolavoro, a dire il vero), ma che comunque aveva il pregio di basarsi su un accordo ampio che includeva i Cinque Stelle. E’ stata fatta fallire per l’incapacità di Forza Italia e dei grillini di tenere a freno le pulsioni al protagonismo becero di Biancofiore e Fraccaro su un tema delicatissimo come il meccanismo particolare per la rappresentanza in Sudtirolo. Stupisce che nessuno nei due partiti che pure sono stati danneggiati da questo improvvido comportamento li abbia in qualche modo sanzionati.

Fallito quel tentativo leggi tutto

È meglio giocare per non vincere?

Luca Tentoni - 14.10.2017

I risultati delle ultime elezioni in Germania hanno confermato una tendenza ormai abbastanza consolidata in alcuni regimi democratici: se c'è una "Grande coalizione" uscente, i partiti di opposizione guadagnano consensi. Nel caso tedesco del 2017, CDU-CSU (-8,6%) e SPD (-5,2%) hanno fatto registrare diminuzioni in termini percentuali (a vantaggio soprattutto di Fdp e AfD), mentre - alla fine della "grande coalizione necessitata" del 2011-2013 - in Italia, fu il Pdl a pagare il prezzo più alto (il 15,8% dei voti, pari a poco più di sei milioni; anche il Pd, tuttavia, perse in voti assoluti 3,5 milioni di consensi e in percentuale il 7,8%). Per fare un esempio più lontano nel tempo si può risalire al 1979, quando il Pci cedette il 4% dei voti mentre la Dc restò sostanzialmente sulle posizioni del 1976 (si trattava, è bene ricordarlo, di una Grande coalizione in due fasi e del tutto anomala: un’intesa politica ma senza l’ingresso dei comunisti al governo e, all’inizio, addirittura con la sola “non sfiducia”). In tutti i casi, le opposizioni ne hanno tratto frutto: alla fine degli anni Settanta, da noi, i radicali ebbero un notevole incremento di voti (per l'epoca, quando la mobilità elettorale era modesta) passando dall'1,1 al 3,4%. Nel 2013, tranne Idv e Lega (che attraversavano un momento particolare) leggi tutto

Confusione a sinistra: come nei grandi scismi religiosi?

Paolo Pombeni - 11.10.2017

La sinistra è tradizionalmente un campo sconvolto dalle lotte per l’ortodossia. Una volta c’era lo scontro fra socialisti e comunisti, poi c’è stato quello fra Pci e cosiddetti extraparlamentari (che peraltro, tutte le volte che ci sono riusciti, in parlamento non hanno mancato di andarci), poi la polverizzazione delle sigle nella confusione che seguì il crollo del comunismo reale, e adesso la querelle fra PD e scissionisti che, in buona compagnia, perdono tempo a discutere se Renzi sia davvero di sinistra.

Per capire quel che sta succedendo si deve appunto tenere conto che di lotte para-religiose per la difesa dell’ortodossia si tratta, oggi come ieri. La regola fondamentale in questi casi è che chi lascia la chiesa madre perché a suo giudizio è finita preda del demonio non può tornare indietro e fare la pace. Leggersi la storia della grande divisione protestante nel XVI secolo per capire: i concili, tardivi, servivano per rimettere ordine nella chiesa madre, non per far tornare all’ovile gli scissionisti.

D’Alema e compagni, che sanno il fatto loro, l’hanno capito benissimo e infatti sono schierati tetragoni contro la vecchia chiesa madre che ha eletto papa Renzi e sanno che se accettassero di tornare indietro accettando una alleanza col “demonio”

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Una campagna elettorale senza programmi?

Paolo Pombeni - 04.10.2017

Siamo da tempo di fatto in campagna elettorale e quel che assolutamente manca sono i programmi. Almeno se alla parola vogliamo dare un significato pieno, non accontentandoci di considerare programmi quelli che sono generici libri dei sogni o promesse/premesse di tipo banalmente ideologico. In questo caso qualche soggetto, a cominciare dai Cinque Stelle può pretendere di averne già uno, ma vari non ce l’hanno neppure a prendere per buone quelle accezioni di cui sopra.

Ciò di cui si discute sono leggi elettorali, con relative possibili manipolazioni dei voti, e coalizioni verso cui spingere dosando il bastone del “altrimenti non andrete mai al governo” con la carota del “se vi coalizzate vi premiamo anche”. Poi c’è qualche rodomontata tipo Di Maio che minaccia i sindacati di riformali lui quando andrà al governo, oppure le solite tiritere su chi è davvero di destra o di sinistra, chi è populista e chi no, chi è capace di cogliere al volo le domande della sua “gente” e chi invece si limita a frequentare le proprie cerchie ristrette, quale che sia il nome che vogliamo dare loro.

Eppure il paese ha più che bisogno di programmi seri attorno a cui coagulare, anche dialetticamente, l’opinione pubblica. Non che manchino leggi tutto

Riflessioni sulla riforma elettorale

Luca Tentoni - 30.09.2017

La nuova proposta di riforma elettorale per Camera e Senato torna ad assegnare una certa quota di seggi (circa il 37%, contro il 75% del Mattarellum) in collegi uninominali col plurality system, in ciascuno dei quali il candidato che arriva al primo posto è eletto. Non si tratta di un ritorno al maggioritario, perchè il meccanismo è di impianto proporzionale: il fatto che non ci sia scorporo dei voti utilizzati dai vincitori nei collegi uninominali è l'indizio che il fine dell'introduzione di questa quota di posti assegnata col "sistema inglese" è solo quello di dare un piccolo premio ai partiti che riescono a coalizzarsi e ad imporsi in un certo numero di realtà locali. Il nuovo Rosatellum non è il sistema tedesco, dunque (puramente proporzionale per chi supera lo sbarramento del 5%) e neppure il Mattarellum (il difetto del quale, a nostro modesto parere, era proprio la quota proporzionale, che "annacquava" l'effetto della competizione maggioritaria uninominale). È, più semplicemente, un modo per introdurre l'apparentamento di partiti (per vincere nei collegi) e nel contempo consentire la competizione fra le liste (per il 63% dei seggi). Un compromesso per superare il blocco delle posizioni dei partiti circa l'attribuzione di un premio di maggioranza: il Pd voleva continuare ad assegnarlo al primo partito, leggi tutto