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Il maxipartito del 60%
Secondo tutti i sondaggi la somma dei consensi ai due partiti al governo raggiunge il 60% di coloro che esprimono delle preferenze e manifestano l’intenzione di andare a votare. Per di più Lega e Cinque Stelle sembrano dividersi alla pari questo bacino di preferenze. Pur con tutte le cautele del caso (si tratta di opinioni espresse in un momento in cui le elezioni sono lontane) non è un dato da sottovalutare.
La prima ragione che dovrebbe far riflettere è che, almeno in teoria, non si tratta di partiti che hanno esattamente lo stesso approccio. Anzi sono due componenti piuttosto diverse per bacini di insediamento, per tipologia di personale politico, per riferimenti ideologici. Persino le promesse che hanno presentato in campagna elettorale erano differenti, con pochi punti di contatto, tanto che questa coalizione non era stata prevista. A tutt’oggi non pochi si ostinano a ritenere che la strana alleanza sia prossima a deflagrare, ma in verità al momento non se ne vedono i segnali.
Dunque cosa è successo? La spiegazione potrebbe essere banale: la voglia nel paese di liberarsi della vecchia classe dirigente era ed è più forte di ogni altra considerazione. E’ questa che fa percepire a più della metà del paese la soddisfazione di leggi tutto
La centralità leghista
Le prime settimane del governo giallo-verde presieduto da Giuseppe Conte sono state contrassegnate da un notevole attivismo dei due vicepresidenti del Consiglio, in particolare del leghista Matteo Salvini (ministro dell'Interno) ma anche - col "decreto dignità" - del pentastellato Luigi Di Maio (ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico). Mentre prosegue il dibattito che si è sviluppato su una possibile egemonia mediatica e tematica leghista sull'Esecutivo, in questa sede ci sembra più opportuno rispondere ad una domanda molto più semplice e netta: perché, col 17% dei voti (27-30% virtuali, secondo le intenzioni di voto espresse nei sondaggi) Salvini è oggi al centro della scena politica? Una prima risposta, quella che ha dato vita al dibattito fra gli osservatori politici, è che il leader leghista ha imposto la sua agenda ed è riuscito a non perdere il "posto in prima fila" sui giornali e sui social network neppure quando è stato il suo principale alleato di maggioranza a presentare e pubblicizzare gli atti di governo voluti dai Cinquestelle. Anzi, il leghista ha fatto a Di Maio quasi una "controscena" (prima affermando che il decreto sarebbe stato reso "più efficiente e produttivo" in Parlamento, poi usando i toni più duri nello scontro col presidente dell'Inps Boeri, dimostrando - all'occorrenza - di far valere leggi tutto
La strana crisi del PD
Qualche stupore dovrebbe pur suscitarlo la strana crisi in cui si sta dibattendo il PD. Nei termini della vecchia politica si dovrebbe dire che “è in atto un dibattito”, solo che il senso di questo dibattito sfugge a chi non sia appassionato alle lotte di corrente interne a quel partito.
Il tema più controverso sembra essere quanto in fretta si debba fare il congresso: secondo alcuni al più presto altrimenti il partito si suicida, secondo altri occorre darsi un tempo congruo per costruire una riflessione, ma comunque prima delle prossime elezioni europee. Ogni tanto nei talk show compare questo o quel capo corrente che parla di cose incomprensibili, così come i TG si danno da fare per raccogliere qualche dichiarazione: a parte quelle scontate contro il governo in carica (se no che opposizione sarebbe?) si sente al più parlare di “garanzie” che gli uni dovrebbero dare agli altri.
In realtà la prima questione che un ingenuo osservatore esterno pensa dovrebbe essere affrontata è quella di decidere come produrre un programma politico in grado di ricostruire una base di consenso che è andata perduta. Sempre ingenuamente si crederebbe che fosse opportuno individuare un gruppo di persone non solo in grado di farlo, ma con leggi tutto
Politica e mass media: dalle passioni alle emozioni
Nei precedenti interventi su Mentepolitica si è fatto riferimento all'estrema volatilità (per certi versi volubilità) che caratterizza una parte consistente dell'elettorato italiano. Fra le tante interpretazioni possibili del fenomeno (oltre alla mobilitazione permanente, figlia di una campagna elettorale ininterrotta e all'affermazione di "partiti del leader") c'è anche un fattore che insieme è tecnico, politico ed emotivo. Lo sviluppo dei social network e il loro utilizzo come arma di diffusione dei messaggi politici, ma anche di lotta fra partiti e leader (oltre che fra i supporters dei diversi schieramenti, incitati a lanciarsi in duelli virtuali "all'arma bianca" da una comoda tastiera di computer contro altri utenti, creando masse di manovra e acuendo fratture sociali e culturali già esistenti nel mondo reale) ha orientato lo stesso rapporto fra i soggetti politici e gli operatori dell'informazione ad adeguarsi a ritmi e a canoni comunicativi molto diversi rispetto al passato. La stessa crisi della carta stampata, il calo di attenzione dei lettori nei confronti di articoli lunghi, rendono ormai necessari messaggi brevi, diretti. Una buona battuta, uno slogan, un'invettiva sintetica sono molto più efficaci di discorsi ponderati, ricchi di contenuti, di idee, di progetti concreti. Accade un po' ciò che successe molti anni fa quando l'audience leggi tutto
Populismi e furberie
La politica italiana continua ad essere ingabbiata entro la cornice della sfida populista. Non è possibile attribuirne la colpa al solo Salvini, sebbene sia il personaggio più attivo nel promuoversi in questo ruolo. Molti, se non proprio tutti (ma le eccezioni sono poche), lo seguono su questo terreno: un po’ perché una quota della attuale classe politica si è formata più che altro in quei “bar sport digitali” che sono i cosiddetti social; un po’ perché anche in personaggi che dovrebbero essere più sperimentati prevale la convinzione che oramai solo così si trova audience.
Chi si sottrae, magari perché non ha la stoffa per quel genere di intemerate, si guarda bene dal mettere in discussione quel contesto comunicativo. Lo si è visto in maniera più che chiara nell’intervista che il presidente Conte ha rilasciato alla “Stampa” il 10 luglio: un avvocatesco approccio per dire che in fondo era d’accordo su tutto quel che facevano i suoi due vice, Di Maio e Salvini, e se parlava poco era perché studiava i dossier (a qual fine non è chiaro).
Il fatto è che in un equilibrio ancora precario continua a dominare la voglia di tenere “caldi” i rispettivi elettorati, fosse mai che si dovesse tornare alle urne, e leggi tutto
Elettori, partiti e leader: un rapporto senza impegno
La campagna elettorale permanente che mobilita leader, elettori e soggetti politici da almeno quindici anni (della quale abbiamo parlato nello scorso appuntamento con Mentepolitica) ha finito per ripercuotersi sulla natura, la struttura, la forma stessa dei partiti italiani. Questi ultimi, peraltro, erano già interessati da mutazioni comuni a tutte le democrazie, ma che da noi si erano accentuate col passaggio dal sistema dei partiti che aveva caratterizzato la Prima repubblica a quello - più "liquido" da una parte e più leaderistico dall'altra - della Seconda. Più in generale, come scrive Marino De Luca in "Partiti di carta" (Carocci, 2018) "la logica degli effetti e delle influenze ha rapidamente trasformato i partiti politici in contenitori di issues a tempo determinato, destinati a vivere pochi anni prima di destrutturarsi e ristrutturarsi intorno a nuove issues. Il ruolo che hanno assunto nella sfera pubblica risulta veicolato da fattori che prescindono dalla stessa sfera organizzativa". De Luca, nel suo saggio, osserva i mutamenti dei partiti e la vita effimera di quelli nuovi: se fra le liste presenti alla Camera, nel 1992, il 36% era costituito da "vecchi partiti", nel 1994 siamo passati al 12%, nel 2008 di nuovo al 33% e nel 2018 al 21%. Molti di quelli nuovi sono partiti che De Luca definisce leggi tutto
Di Maio batte un colpo?
Dopo una lunga fase di presenzialismo esasperato di Salvini, conclusosi con la prspettazione a Pontida di un ciclo trentennale di governo, il secondo dei cosiddetti dioscuri governativi, Luigi Di Maio, non poteva esimersi dal reclamare un suo forte momento mediatico. L’ha trovato facendosi promotore del primo decreto del nuovo governo a cui, tanto per non essere da meno del suo competitore, ha voluto dare il nome altisonante di “decreto dignità”. Come da tradizione si tratta di un provvedimento “omnibus” in cui si mettono insieme cose diverse: da interventi in materia di diritto del lavoro, a norme contro la pubblicità alle scommesse, a sanzioni per le imprese che prendono aiuti dallo stato e poi licenziano o delocalizzano.
E’ roba buona più per andare in TV e sui social a lanciare qualche slogan contro il precariato e il Jobs Act di Renzi che per incidere davvero su problemi delicati. Non solo perché è stato tutto un va e vieni nella stesura delle norme, inevitabilmente soggette al vaglio delle autorità finanziarie che tutto vogliono tranne che creare problemi di instabilità in un momento delicato, ma anche per la complessità di materie che mal si prestano ad essere tagliate con l’accetta della propaganda. Si pensi leggi tutto
Quindici anni di campagna elettorale
Le "comunali" del 10 e 24 giugno sono state l'ennesimo capitolo di una perenne campagna elettorale (non finita: ci attendono le europee del 2019 e le regionali del 2018-2020) che ha riguardato (negli ultimi venti mesi) le regionali in Val d'Aosta, Molise, Friuli-Venezia Giulia, le politiche del 4 marzo 2018, le comunali del 2017, la consultazione popolare sull’autonomia del lombardo-veneto, il referendum costituzionale del dicembre 2016. Ma anche, risalendo nel tempo, il referendum del 2016 (con quorum mancato), le elezioni regionali del 2014-2016 e le comunali dello stesso periodo, le europee del 2014 e ancora le politiche del 2013 e le due “primarie” Pd del 2012-‘13. Senza contare le comunali del triennio 2011-2013, particolarmente favorevoli al centrosinistra, così come i referendum del 2011 che videro la vittoria del cosiddetto "fronte arancione". E ancora: le regionali del 2010, le europee del 2009, le politiche del 2008 e del 2006, le regionali (che il centrodestra perse quasi dovunque, tranne che in Lombardia e Veneto) del 2005, a loro volta precedute dalle primarie del Pd per Prodi nel 2004 e dalle europee dello stesso anno. A ben vedere, la mobilitazione dell'elettorato - a diversi livelli territoriali, con contesti sociali, politici ed economici molto diversi fra loro - dura da circa quindici anni. Un conflitto continuo che ha logorato e in parte dissolto poli forti del 43-48% dei leggi tutto
PD: Una disfatta neppure tanto strana
Una delle battute più fuorvianti è quella famosa di Andreotti: “Il potere logora chi non ce l’ha”. E’ l’autoconsolazione di tutti i politici che sognano un mondo senza ricambio e non tengono conto che prima o poi la domanda di circolazione delle elite si mette in moto. Certo, per allontanarla o diluirla, si potrebbe seguire il suggerimento che Aldo Moro dette una volta al suo partito: partendo allora dall’assunto che la DC per ragioni internazionali non poteva essere rimossa dal governo, il partito doveva costruire al suo interno l’opposizione a sé stesso.
E’ quanto più o meno tutti i partiti si illudono di fare, scambiando le lotte interne di fazione per una dialettica di ricambio e non considerando che così non si apre alcun circuito virtuoso. A Renzi accadde esattamente questo. Capì a suo tempo che il problema era il ricambio di elite e propose la famosa “rottamazione”. Gli andò bene, ebbe successo sia personale che elettorale, fintanto che non divenne palese la prospettiva asfittica dell’operazione: non un lavoro per immettere forze nuove, ma un giochetto per favorire cerchie di amici, neppure sempre all’altezza dei compiti, e per aggregare componenti interne delle filiere tradizionali subito disposte a cambiare casacca. leggi tutto
I sondaggi e la tentazione di una legislatura breve
Sebbene il quadro politico sembri in via di stabilizzazione, l'ipotesi di un ritorno alle urne nella tarda primavera del 2019 non è tramontata del tutto. In altri tempi - anche abbastanza recenti - la formazione di una coalizione di governo dotata di una maggioranza parlamentare non eccessivamente grande (soprattutto in Senato) ma sufficiente per superare più di un ostacolo avrebbe indotto gli osservatori e le forze politiche a pensare di avere di fronte una legislatura capace di durare almeno due o tre anni, fino alle regionali del 2020 e forse oltre. Del resto, gli stessi alleati della coalizione giallo-verde prevedono - nel "contratto" - di fare un "tagliando" a metà del percorso, dunque verso la fine del 2020 ("le parti concordano sulla necessità di effettuare una verifica complessiva sull’azione di governo a metà della XVIII legislatura, allo scopo di accertare in quale misura gli obiettivi condivisi siano stati raggiunti e, se possibile, di condividerne degli altri"). Se le valutazioni su governo e coalizione non fossero soddisfacenti per entrambe le parti che sostengono l'Esecutivo, si potrebbe andare ad elezioni anticipate nella primavera del 2021. C'è però un fattore tempo che ormai sembra aver preso il sopravvento su tutto il resto. Nell'era in cui tutto si "consuma" mediaticamente in poco tempo, leggi tutto