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Una Commissione “politica”

Michele Marchi - 16.09.2014
Jean-Claude Juncker

La lunga tessitura di Jean-Claude Juncker è giunta ad un primo traguardo. Ora che l’organigramma della sua Commissione è noto, è possibile provare ad ipotizzare verso quale direzione cercherà di puntare l’Unione europea nei prossimi cinque anni. Naturalmente non deve essere trascurato il complicato passaggio dei singoli commissari di fronte alle “bellicose” commissioni del Parlamento europeo. Ma già oggi, una riflessione sulla dimensione “politica” della nuova compagine è possibile farla.

Alcune novità … obbligate

I primi passi di Juncker sono stati condotti all’insegna di alcune novità. La sempre più profonda distanza tra cittadini e istituzioni europee, testimoniata dai continui successi dei partiti politici anti-europei o comunque euroscettici (dalla Francia alla Svezia, passando per la Germania), ha creato una sorta di clima da ultima spiaggia. Servivano messaggi forti e non a caso il neo presidente della Commissione ha parlato di “ultima possibilità per l’Europa”, aprendo la conferenza stampa di presentazione della sua equipe. I dieci anni di Barroso e soprattutto l’assenza della Commissione nella gestione della crisi economica-finanziaria, tutta demandata al Consiglio europeo e al vertice della BCE, imponevano una scossa. Juncker ha deciso di incarnarla prima di tutto con una svolta organizzativa, basata su due pilastri principali.

La nomina dei sei vicepresidenti, accanto al previsto settimo (Federica Mogherini come Alto Rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza) è una novità non tanto formale, quanto sostanziale. Non siamo di fronte a commissari che, oltre al loro incarico dovranno sostituire il presidente in occasioni ufficiali o simili. Il drappello è composto da un “primo” vicepresidente, il laburista olandese Timmermans, braccio operativo di Juncker, con il compito di supervisor generale, e da sei vicepresidenti con l’incarico di veri e propri “tutori” degli altri colleghi, sui principali dossier indicati dallo stesso Juncker: agenda digitale, energia, euro bilancio, crescita e azione esterna.

Dall’altro lato, ancora metodologicamente, il neo presidente ha scelto in numerosi settori “sensibili”, personalità provenienti da Paesi membri che in questi stessi settori o hanno problemi o sono comunque in “prima linea”. Tre esempi su tutti: un commissario greco per l’immigrazione, un francese (sul quale torneremo) per l’economia e gli affari monetari e un britannico per i servizi finanziari.

Queste due novità sono sufficienti per poter parlare di una svolta “politica”? E soprattutto, cosa intende Juncker quando insiste sul fatto che la sua nuova Commissione tornerà ad essere “politica”?

 Commissione “politica”?

Il tentativo di impostare sin dal voto europeo di maggio la scelta del nuovo presidente della Commissione alla luce della contesa tra i due principali aggregati politici europei, popolari e socialisti, ciascuno con un proprio candidato, fornisce a Juncker una legittimazione ad oggi mai avuta dai suoi predecessori. Lo stesso Juncker ha poi insistito molto sul fatto che la sua nuova Commissione non è composta da tecnocrati, ma da personalità portatrici di un chiaro profilo politico, in quanto hanno tutti svolto incarichi istituzionali di primo piano nei loro rispettivi Paesi. Ha ricordato che la sua Commissione conta cinque ex Primi ministri, quattro ex vice Primi ministri e 19 membri che sono stati una o più volte ministri nella propria nazione d’origine. Fino a qui tutto vero, c’è forse però un’altra dimensione politica, meno sottolineata dall’uomo forte del Lussemburgo, ma altrettanto rilevante. La prima grande missione di questa nuova Commissione è quella di rafforzare la moneta comune e in generale l’economia europea. È oramai evidente che sul terreno vi sono due grandi ricette per cercare di arrivare a questo obiettivo. Quella tedesca, o del “nord”, fatta di austerità e riforme e solo in un secondo momento di incentivi alla crescita. Quella del “sud” o franco-italiana o “renziana”, che non sconfessa, almeno in teoria, riforme e rispetto delle regole di bilancio, ma che spinge affinché l’Europa punti più sulla crescita che sul rigore. In mezzo, a mediare, la BCE e in particolare il suo numero uno Draghi.

Ebbene il messaggio “politico” lanciato da Juncker in questo senso è piuttosto inequivocabile. Il suo braccio destro sarà un laburista, Timmermans, ma di un Paese come l’Olanda, ascrivibile al fronte del nord. Moscovici ha ottenuto l’agognato (da lui e da Hollande) portafoglio all’economia e agli affari monetari, ma senza la vicepresidenza e con il campione del rigore finlandese, Katainen, come vero e proprio tutor, grazie all’incarico alla crescita. Se si osservano poi i sette vicepresidenti, solo uno, l’italiana Mogherini, è riconducibile all’area del sud Europa. E infine quattro dei cinque ex Primi ministri ricordati da Juncker presenti nella sua nuova compagine (l’altro è lui) appartengono a Paesi “minori” (Slovenia, Estonia, Lettonia, Finlandia) e ancora una volta del “nord” rigorista e filo-tedesco.

Tra certezze e interrogativi

La prima certezza è che Juncker esce rafforzato da questi mesi estivi di trattative e con un mandato pieno dal momento che il vero “uomo forte” dell’Europa gli offre la copertura politica necessaria. E’ impossibile infatti non vedere la mano di Merkel, e in generale di Berlino come sistema Paese, dietro la composizione della nuova Commissione. Metodologicamente e politicamente il nuovo organigramma registra il lento ma costante spostamento degli equilibri economici, finanziari e geopolitici dell’Unione europea. Verso nord , ma ancor di più verso est (la nomina del polacco Tusk a Presidente del Consiglio aveva già anticipato questa tendenza, ora confermata). Berlino dovrà a questo punto dimostrare, finalmente, di essere in grado di sopportare il peso, ancora una volta, “politico”, che l’esercizio di questa leadership comporta.

La seconda certezza, ancora più evidente dopo le decisioni di Juncker, è che Renzi abbia combattuto sulla nomina di Federica Mogherini a Miss Pesc una battaglia più personale che altro e che, di conseguenza, la coppia Hollande-Renzi (ma anche il “patto del tortellino”) sono, al momento, più slogan utili per vendere giornali in Italia, che concreti piani operativi per indirizzare le istituzioni europee. L’asse del sud si trova infatti a gestire il dossier delicatissimo della politica estera e di sicurezza, probabilmente unica vera reminescenza delle sovranità nazionali europee (dunque un contenitore vuoto?) e, solo in apparenza, quello economico-finanziario, con il francese  Moscovici, “scortato” dai due duri Katainen e Dombrovskis.

Gli interrogativi riguardano nell’immediato i passaggi dei vari commissari di fronte alle commissioni di Strasburgo. Si annunciano difficili in particolare quello dello spagnolo Canete (complicato tenere insieme ambiente ed energia, a maggior ragione se si è stati azionisti di società petrolifere), quello di Moscovici (i conservatori tedeschi mettono in dubbio le reali competenze tecniche del francese), quello della rumena Cretu (per illazioni su simpatie KGB in epoca di Guerra fredda) e infine quello di lord Hill (un uomo della City ai servizi finanziari, con il dossier dell’unione bancaria da sempre visto come il fumo negli occhi da Londra). L’altro grande interrogativo è sistemico. Il riferimento ad una commissione “politica” ha finito per accostare, in maniera azzardata, Juncker a Delors e alla sua Commissione operativa tra il 1985 e il 1995. Solo il tempo e gli atti concreti permetteranno di esprimere giudizi sensati. Ad oggi si può rilevare che Delors, alla metà degli anni Ottanta, si inserì in maniera innovativa e creativa in un solco tracciato. In definitiva egli portò a compimento un’evoluzione istituzionale in atto, con l’Atto unico e Maastricht. A Juncker tocca qualcosa, se possibile, di ancor più complesso. Da un lato impedire l’affondamento dell’edificio europeo, proponendo opere di consolidamento. Dall’altro prendere atto che l’accelerazione della storia e le sfide della complessa dinamica globalizzazione /post Guerra fredda impongono una ripartenza. Forse anche istituzionale, di sicuro politica. La politica è dominata dai rapporti di forza. Nei prossimi cinque anni questi rapporti decideranno il destino dell’Unione e la sua possibile evoluzione.