Addio al “Modello Germania”? Se lo dice “Der Spiegel”…

C’era una volta … “un Re!”, diranno i lettori. Molto più modestamente, c’era una volta il “Modello Germania”. Espressione che per la verità ha assunto connotazioni differenti nel corso degli anni: nell’immediato dopoguerra l’etichetta comprendeva l’insieme di relazioni industriali innovative (la cosiddetta “Mibestimmung”, o coinvolgimento dei lavoratori nei processi decisionali dell’azienda), una formazione professionale diversificata, e più in generale la stretta collaborazione tra industria, finanza e politica al fine di promuovere il benessere collettivo. In seguito, quando la Repubblica Federale sembrò attraversare pressoché indenne la crisi economica generale degli anni ’70, l’espressione “Modello Germania” indicava soprattutto la condotta moderata delle organizzazioni sindacali, che moderavano le loro richieste salariali fornendo così un aiuto significativo all’intero sistema economico nazionale. Infine, le politiche di riforma del welfare e del mercato del lavoro promosse dal governo rosso-verde al tornante del millennio furono presentate come un necessario e salutare aggiornamento del “Modello Germania” ai tempi nuovi della globalizzazione. Si trattava dell’ambiziosa “Agenda 2010” promossa dal Cancelliere Schroeder tra il 2003 e il 2005, periodo in cui le sinistre moderate erano al governo in più parti del continente e auspicavano una “terza via” tra il socialismo di vecchio stampo e il neoliberismo più sfrenato. Con quei provvedimenti, al centro di un intenso dibattito nel paese e al Bundestag, la sinistra tedesca si fece carico di legittimare una maggiore precarietà nei rapporti di lavoro (facilitando ad esempio i licenziamenti per le aziende con meno di dieci dipendenti). L’innovazione più contestata furono i “minijob”, impieghi retribuiti con meno di 450 euro da parte delle aziende, esentate inoltre da tutti o quasi gli obblighi contributivi. L’altro tabù infranto all’epoca fu la forte restrizione dei sussidi di disoccupazione, che nei tradizionali equilibri del “Modello Germania” rappresentavano il risarcimento per la mancata piena occupazione. In che modo erano “ricompensati” i lavoratori per i loro sacrifici? Nel breve periodo, con una riduzione dell’aliquota fiscale minima (comunque meno rilevante in termini assoluti dello sconto concesso alle fasce più alte). Ma soprattutto con la garanzia che nel più lungo termine il contenimento dei costi per le imprese le avrebbe convinte a rimanere nel paese, garantendo in tal modo un alto livello di occupazione e di benessere generale. O come espresso chiaramente da Helmut Schmidt durante il suo cancellierato negli anni ’70: “i profitti di oggi sono gli investimenti di domani e i posti di lavoro di dopodomani”.
Dati inquietanti
Promesse tradite? A propendere per questa ipotesi non è uno straniero invidioso della solidità teutonica ma addirittura il settimanale “Der Spiegel”, che di recente ha dedicato ampio spazio alle fosche conclusioni dell’autorevole Istituto Tedesco per la Ricerca Economica (DIW). Il quale ha brutalmente affermato per bocca del proprio direttore che la Germania sta vivendo di rendita piuttosto che di nuova ricchezza prodotta. Lo dimostrerebbe il pesante e prolungato calo degli investimenti pubblici e privati in scuole, ferrovie, ponti e altro, che in pochi anni ha precipitato il paese dal terzo al settimo posto nel mondo. Parallelamente, la Germania ha subito tra il 2010 e il 2012 il peggior calo proporzionale degli investimenti di tutta Europa, oltre il 3%. Questo significa che, nel complesso, la forte compressione salariale degli ultimi dieci anni non avrebbe prodotto l’effetto sperato nell’attrarre nuovi capitali e nel conservare quelli prodotti nel paese. Quanto a questi ultimi, alcuni dei marchi tradizionali tedeschi hanno già infranto il tradizionale “patto di lealtà” alla base del “Modello Germania” o sono pronti a farlo, spostando i centri logistici e i principali impianti produttivi all’estero. Detto altrimenti: l’adozione di un modello che propone bassi salari e flessibilità del lavoro come maggiore attrazione per gli investimenti è alla lunga perdente in un mondo in cui esistono paesi inarrivabili su questo terreno. “Cinesizzare” il mondo del lavoro in Europa risulta insomma inutile, quando i capitali possono sempre scegliere l’originale. Infine il DIW ventila il dubbio che un paese in cui due lavoratori su tre guadagnano oggi meno di quanto percepivano nel 2000 possa guardare al futuro con serenità. I minijob servono forse a rifare il trucco ai dati sull’occupazione, magari a fornire una fonte minima di sussistenza a chi in precedenza ne era sprovvisto. Ma dare impulso al mercato interno e garantire il benessere diffuso del paese è un altro paio di maniche. Anche per questo l’analisi si conclude con l’esortazione a un cambio di rotta delle politiche governative che presuppone innanzitutto un mutamento culturale e di prospettiva; difficile dopo tanti anni, ma indispensabile per la Germania e l’Europa intera. Altrimenti l’insistenza sulla flessibilità e la contrazione dei salari e delle garanzie come unico strumento di competizione internazionale finirà per minare ogni residuo di coesione sociale, senza più nemmeno un “Articolo 18” a cui dare la colpa.
di Stefano Zan *
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di Gianpaolo Rossini