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L'anormale impopolarità del presidente normale

Riccardo Brizzi - 14.10.2014
François Hollande

Essere un presidente «normale». Questa era stata la promessa (e la scommessa) fatta da François Hollande in campagna elettorale. L'espressione era volta ad annunciare una forte discontinuità rispetto all'azione di Sarkozy principalmente su due fronti. Per quanto riguarda la vita privata Hollande si impegnava a restituire sacralità a una funzione presidenziale diminuita dall'eccessiva disinvoltura del presidente uscente, protagonista di una serie di gaffes memorabili, dalla cena da Fouquet’s la sera della vittoria elettorale agli insulti con i pescatori bretoni nel porto di Guilvenec, passando per la telenovela con Cécilia, il corteggiamento di Carla e la conferenza stampa in stato di ebbrezza in occasione del G8 di Heiligendamm. Il ritorno alla «normalità» avrebbe dovuto investire anche la sfera istituzionale, rispetto alla quale il candidato socialista si impegnava a ripristinare la «sacra» distinzione di ruoli, proclamata agli albori della V Repubblica, tra un presidente della Repubblica incaricato dell’«essenziale» e un primo ministro cui è affidata la gestione ordinaria del potere. Un confine costantemente scavalcato da Sarkozy nel corso di un mandato il cui tratto distintivo era stata la costante emarginazione del primo ministro e una concentrazione presidenziale, estremamente mediatizzata, del potere esecutivo.

 

Leader autorevole in politica estera, delegittimato in politica interna

 

Relativamente al primo ambito la promessa si è trasformata in un boomerang per Hollande, la cui vita privata ha colpito a cadenze regolari la traiettoria presidenziale, dal tweet assassino della Trierweiler tra i due turni delle legislative del 2012 al recente regolamento di conti editoriale con la pubblicazione di «Merci pour ce moment», passando per la liaison clandestina con l'attrice Julie Gayet finita in bella mostra sulla copertina di «Closer» con seguente ricovero ospedaliero dell'allora compagna, ferita dal tradimento.

Hollande si è invece mostrato fedele alla seconda promessa. Ha misurato con maggiore cura del suo predecessore le presenze in pubblico, affermandosi come autorevole responsabile della politica estera e come capo dell'esercito e defilandosi progressivamente dalla gestione della politica interna, lasciando maggiore spazio a Valls di quanto avesse fatto nei primi due anni di mandato con Ayrault.

I francesi lo hanno compreso appieno, dal momento che dell'operato presidenziale approvano quasi esclusivamente le operazioni militari (bombardamenti aerei in Iraq, operazione in Mali) mentre sanzionano severamente la sua politica economica e sociale. Hollande non è certamente il primo inquilino dell'Eliseo a cadere vittima di un'impopolarità crescente e a conservare il «domaine réservé» della politica estera come ultimo baluardo del prestigio presidenziale. Era accaduto anche ai suoi tre predecessori, nella fase declinante dei loro mandati: dal Mitterrand nella Sarajevo assediata all'attivismo di Sarkozy in Georgia e Libia, passando dall'orgogliosa opposizione di Chirac al conflitto iracheno. Mai però come per Hollande l'impopolarità era stata immediata e la contraddizione tra le due dimensioni così stridente: autorevole e rispettato in politica estera, completamente delegittimato sul fronte interno (complici le frequenti retromarce sul fronte della politica economica: tassazione sui grandi capitali, politica di crescita in Europa, assegni familiari, ecotassa, riforme territoriali).

 

 Le ragioni di questa «eccezionalità»

 

Le ragioni di questa «eccezionalità» sono riconducibili a tre ambiti distinti.

La prima è di ordine storico-strutturale. L'emergere di nuovi competitori sulla scena internazionale a partire dagli anni Novanta e l’approfondirsi di una crisi economica di natura sistemica hanno progressivamente ridotto il margine di manovra in ambito economico-sociale, in un contesto nel quale l'economia è progressivamente diventata il principale parametro di legittimazione dei governi. Il mantenimento delle principali leve di politica estera e la conduzione di un'apprezzata strategia diplomatica non sono più sufficienti a garantire consenso neppure agli occhi di un'opinione pubblica - quale quella francese - tradizionalmente sensibile al protagonismo internazionale del proprio paese.

La seconda è di natura politica: sul fronte diplomatico il candidato socialista non aveva fatto alcuna promessa impegnativa durante la campagna elettorale (eccezion fatta in ambito europeo), mentre aveva annunciato riforme altisonanti in ambito economico e sociale (sul quale paradossalmente Hollande forniva maggiori garanzie alla vigilia dell'ingresso all'Eliseo). Inevitabile che le retromarce e le rinunce siano state sanzionate da un elettorato deluso.  

L'ultima ragione attiene allo scarto tra dimensione istituzionale e politica: nello specifico del contesto quintorepubblicano francese la solidità delle istituzioni semipresidenziali consente ancora a Hollande di essere un leader autorevole in politica estera, mentre la crescente fragilità della società francese e le tensioni della democrazia d'opinione indeboliscono irrimediabilmente la legittimità presidenziale sul fronte interno, riducendone il margine di manovra politico e rendendola più fragile di fronte alle sirene del disincanto democratico.