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Eppur qualcosa si muove. Osservazioni sul fronte siriano.

Massimiliano Trentin * - 10.02.2015
Offensive a Quneitra

Le notizie provenienti dalla Siria nelle ultime settimane non lasciano intravvedere cambiamenti rilevanti in una situazione che è fondamentalmente in uno stallo militare. Forse, però, qualcosa si muove dal punto di vista politico, anche se molto lentamente.

Dal punto di vista militare l'esercito e il regime di Damasco godono ancora della superiorità in termini di armamenti e capacità di fuoco ma mancano di un numero sufficiente di truppe in grado sia di conquistare nuovi territori sia di mantenere le posizioni acquisite. Le cosiddette Forze di Difesa Nazionale, sorta di milizia ai comandi dell'esercito regolare e dei servizi di sicurezza, aiutano in modo sostanziale al controllo dei territori ma difficilmente contribuiscono alla conquista di nuove aree. I recenti scontri nel nordest contro le milizie curde dell'YPG ne hanno dimostrato i limiti.  Intanto, il governo ha dovuto aumentare il prezzo da 25 a 35 lire siriane per la porzione standard di pane (1,55kg).

Dal lato dei ribelli e delle opposizioni tre sono i processi in corso. Le forze islamiste radicali hanno ormai preso il sopravvento sulle altre forze ribelli armate, moderate o laiche che siano. Dopo aver preso il controllo delle campagne attorno al capoluogo di Idlib, nel nord-ovest, l'affiliato di al Qaida, Jabhat al Nusra, si è scontrato a più riprese nella zona di Aleppo contro la coalizione di altri islamisti denominata Fronte di Sham. Non essendo stata in grado di conquistare la superiorità definitiva, i due soggetti sono giunti ad una tregua e al coordinamento delle azioni contro l'esercito regolare siriano. Resta da vedere quanto siano in grado di rimanere uniti. Nel frattempo, è da mesi che Jabhat al Nusra avanza nel sud della Siria, a ridosso del confine con la Giordania e le Alture del Golan occupate da Israele: la battaglia per la città-capoluogo di Quneitra e il centro militare di Tall al Hara confermano le grandi capacità militari del gruppo jihadista.

Qui si aggiunge un altro processo in corso, molto pericoloso. Per i mesi da Marzo a Settembre 2014, i rapporti del contingente UNDOF dell'ONU, dispiegato tra Siria e le Alture del Golan occupate da Israele, riportano come siano sempre più frequenti gli scontri sulla linea di demarcazione. Si registra anche come i ribelli siano in costante rapporto con l'esercito di Tel Aviv per il trasferimento di feriti o dei profughi negli ospedali israeliani. Ciò si aggiunge ad una preoccupante coincidenza nelle attività militari. I bombardamenti dell'aviazione israeliana contro le postazioni dell'esercito siriano hanno preceduto spesso gli attacchi dei ribelli, i quali conoscevano perfettamente il dispiegamento delle unità del nemico. Non vi sono prove certe di “coordinamento”. La cronaca degli eventi, tuttavia, sembra confermare una "convergenza" de facto, secondo la vecchia e temibile logica de "il nemico del mio nemico, è il mio amico" sia da parte israeliana che dei ribelli siriani a guida islamista. Questo si lega ai recenti attacchi e alle rappresaglie di Israele e Hizb'allah tra Siria e Libano, mostrando tutti i rischi di una possibile escalation del conflitto e del coinvolgimento crescente di Israele. Da oltre un anno, Hizb'allah interviene attivamente in Siria a fianco di Damasco, tenendo però distinto il fronte contro Israele nel sud del Libano. Israele, invece, ha colpito più volte Hizb'allah in Siria, coinvolgendo anche alti ufficiali iraniani. Nel discorso del 30 gennaio, il leader di Hizb'allah ha promesso che le prossime rappresaglie del movimento non si limiteranno alla zona delle fattorie di Sheba'a, ancora oggi contese tra Israele e Libano, ma si estenderanno dalla costa del Mediterraneo alle alture occupate del Golan, dunque in Siria.

Sempre dal punto di vista militare, il sedicente Stato Islamico incassa la sconfitta a Kobane contro le milizie curdo-siriane della Rojava e i peshmerga curdo-iracheni. La forza militare delle forze curde viene, però, indebolita dalle divisioni politiche tra le forze facenti capo in sostanza al PKK di Abdullah Ocalan e a quelle del Governo Regionale Curdo in Iraq di Massud Barzani. Lo Stato islamico, allora, sta tornando all'attacco nei dintorni di Damasco, radicalizzando una situazione militare e soprattutto umanitaria già pessima.

Da questo quadro risulta l'obiettiva incapacità di qualsiasi forza in campo di poter vincere la guerra di Siria militarmente. Questo a maggior ragione perché i rispettivi sostenitori regionali ed internazionali iniziano a sentire il peso politico e finanziario di una guerra per procura che non sembra dare profitti adeguati. Stati Uniti d'America e stati europei non riescono ad essere incisivi sul campo perché, fondamentalmente, non sono mai riusciti a trovare forze locali vincenti su cui appoggiarsi. Si sono allora affidate alle monarchie arabe del Golfo e Turchia, che hanno favorito la preminenza delle milizie islamiste, se non apertamente jihadiste. E parte di queste si sono poi rese autonome come dimostra il caso del sedicente Stato Islamico, mandando in cortocircuito le strategie di Ankara, Ryad, Doha e Kuwait City. Da parte loro, Iran e Russia continueranno a sostenere il governo di Damasco e, soprattutto, l'esercito siriano nonostante le crescenti difficoltà economiche e finanziarie. In gioco vi è la loro presenza nella regione. E tuttavia, sono ben consapevoli che la soluzione al conflitto non potrà che passare per un accordo politico.

Si passa allora alla diplomazia. Dal 26 al 29 gennaio si sono svolti a Mosca dei colloqui tra rappresentanti del governo di Damasco e di una parte delle opposizioni. Sembra che sia gli Stati Uniti e l'Arabia Saudita abbiano accettato il tentativo di mediazione russo, fatto questo che rappresenterebbe una novità importante: in particolare, durante gli incontri delle opposizioni svoltisi al Cairo con la mediazione dell'Egitto di al Sisi, altro "candidato" mediatore, Ryad avrebbe fatto pressione su propri alleati in Siria affinché accettassero la mediazione russa. I risultati raggiunti nei negoziati di Ginevra I e II, ossia un accordo politico generale per la transizione post-conflitto, è stato abbandonato in quanto non esistono più le condizioni e soprattutto i soggetti con cui condividere la transizione: tra i ribelli oggi hanno il sopravvento le forze islamiste che rifiutano qualsiasi trattativa con Damasco, tantomeno una transizione condivisa. Lo Stato Islamico, o Jabhat al Nusra, sono poi fuori da qualsiasi considerazione sebbene siano le forze militari più forti sul campo. I colloqui, allora, si sono concentrati su soluzioni parziali e temporanee che, in attesa di tempi migliori, possano quantomeno alleviare le condizioni umanitarie disastrose in cui versa la popolazione siriana: apertura di corridoi umanitari per gli sfollati e i feriti, fornitura di energia e beni alimentari nelle zone di guerra, per fare alcuni esempi.

Intanto, i governi di Norvegia e Libano si aggiungono agli sforzi di mediazione sponsorizzando incontri tra esponenti di Damasco e delle opposizioni nella capitale Beirut: ricordando una sorta di processo parallelo e semi-segreto come quello svolto a suo tempo tra Israeliani e Palestinesi dell'OLP nei primi anni Novanta. Significativa qui è la presenza dell'ex leader dell'opposizione Moaz al Khatib. Teoricamente di livello più basso in quanto rappresentanti, gli incontri prendono in considerazione temi più generali quali le riforme costituzionali e, dunque, quale forma dovranno avere in futuro le istituzioni dello Stato siriano. Almeno, sembra esserci consenso sul fatto che si debba preservare l'unitarietà della Siria come stato. Resta da vedere come lo stato si relazioni con una società tanto plurale quanto oggi frammentata, purtroppo. In questa prospettiva, è interessante notare come l'esperienza dei Cantoni della Rojava, con il loro esperimento di decentramento e federalismo democratico, e di "democrazia radicale", possa avere eco. Se Damasco ritiene la Rojava il viatico all'indipendenza dei curdi e, dunque, allo smembramento della Siria, gli stessi curdi siriani e i loro colleghi turchi sostengono il contrario: l'autonomia locale rafforzerebbe l'unità nazionale in quanto più democratica e sostenibile. Interessante come la politica e la diplomazia russa stiano osservando con attenzione questa esperienza come possibile soluzione istituzionale per società non solo plurali, ma anche divise per effetto della guerra: con un occhio all'Ucraina. Nella speranza, ultima a morire, che autonomia e autodeterminazione portino con sé libertà e partecipazione. Nonostante pochi degli stati in causa abbiano credenziali adeguate.

 

 

 

 

* Ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali di Bologna