La politica estera di Renzi ovvero il “rottamatore pragmatico”
In politica estera non si inventa nulla. E nemmeno un funambolo come il nostro Presidente del Consiglio può contravvenire a questa regola ferrea. Senza dubbio i nuovi media influenzano i vecchi riti che dominano la politica internazionale. E’ allo stesso modo evidente che la fine della contrapposizione tra i due blocchi, l’accelerazione impressa allo sviluppo storico dalla globalizzazione dei mercati e le nuove minacce legate alle guerre asimmetriche e al terrorismo hanno reso il quadro internazionale più caotico ed anarchico. Nonostante tutto ciò, con le dovute compensazioni e i necessari adattamenti, la politica estera della “media potenza” Italia continua a muoversi lungo le sue direttrici classiche. Matteo Renzi, dopo un anno abbondante a Palazzo Chigi, ha mostrato di avere il quadro chiaro e di essere in grado di adattarsi in maniera pragmatica a questi “fondamentali”. Insomma più che a “rottamare”, si è impegnato a sfruttare vecchie rendite di posizione e a riadattare direttrici fondanti, il tutto con quella dose di volontarismo comunicativo così caratteristica del suo marchio di fabbrica.
Innanzitutto Renzi si è applicato nel rinverdire i fasti dell’europeismo italiano e lo ha fatto, se è consentito un paragone ardito, alla “maniera di De Gasperi”. Nel senso che, forte del travolgente successo alle elezioni europee del maggio scorso, si è rivolto direttamente alla fonte della nuova leadership europea. E’ andato diretto a Berlino, senza passare da Parigi. O meglio, ha fatto salire sul “bus della crescita” Hollande, dopo aver puntualizzato che il vero leader dei “progressisti” europei sta di casa a Roma. E ha fatto tutto ciò con grande abilità, da una posizione di forza ma anche di modestia, nel senso che non ha mai adombrato l’idea dell’asse Mediterraneo da contrapporre a quello storico (anche se polveroso) tra Parigi e Berlino. Rispettoso del passato (forse più a parole che nei fatti) Renzi è riuscito a costruirsi l’immagine del più affidabile e, di conseguenza, miglior partner di Merkel e allo stesso tempo quella di catalizzatore della lotta anti austerity dell’Europa del sud contro quella del nord, da condurre dunque “contro” la stessa Merkel.
Secondo cardine imprescindibile della politica estera italiana l’atlantismo. È molto più complicato essere atlantisti nel mondo post-bipolare. I differenti approcci al post-11 settembre 2001 tra la cosiddetta “vecchia Europa” e la “nuova Europa” hanno lasciato cicatrici ancora aperte, che il cambio della guardia alla Casa Bianca del 2008 ha solo in apparenza ricucito. In realtà l’atlantismo affronta una lunga fase di mutamento che affonda le sue radici nei profondi anni Settanta dello scorso secolo. L’89-’91, le campagne in Afghanistan e in Iraq, l’allargamento della Nato ad est e il cosiddetto pivot to Asia di Obama sono tutti episodi di una lunga serie, il cui finale di stagione non è stato ancora scritto. Renzi si è inserito in questo “grande gioco”, sfruttando il potenziale geopolitico del nostro Paese. Da pragmatico sta poi usando tutto il capitale di legittimazione ereditato, dall’atlantismo dalemiano nella vicenda del Kosovo a quello berlusconiano delle difficili e dolorose scelte in Iraq, passando per il ruolo fondamentale svolto dalla Chiesa (di Roma) nei negoziati per la storica apertura a Cuba e naturalmente per quello altrettanto decisivo dei nove anni di “supplenza” svolti dal presidente Giorgio Napolitano. Renzi ha poi “condito” tutto ciò con due ingredienti importanti, uno di immagine e l’altro di sostanza. Da un lato il suo attivismo, il suo giovanilismo e il suo volontarismo nel cercare di rimettere in moto il Paese, in sintonia con l’approccio dell’oramai “ex-giovane” Obama. E dall’altro una sponda importante su quei temi economici, di rilancio della crescita e di serio contrappeso alla Germania dell’austerity, rispetto ai quali la leadership Usa è così attenta negli ultimi anni.
Nonostante gli attestati di stima e le frasi di incoraggiamento, Renzi è rientrato da Washington anche con parecchi compiti da svolgere. Renzi potrà completarli andando a recuperare altre due direttrici, forse meno evidenti, ma comunque importanti della tradizionale politica estera del nostro Paese. La prima riguarda la direttrice orientale e in particolare il rapporto con il Cremlino. In un modo o nell’altro, dalla togliattiana svolta di Salerno, passando per il viaggio di Gronchi del 1960, le “aperture” di Giovanni XXIII verso Chruscev, l’eurocomunismo berlingueriano e le simpatie personali tra Berlusconi e Putin e tra quest’ultimo e Prodi, l’Italia ha costantemente avuto un suo caratteristico approccio al Cremlino. Si è molto scritto sui mugugni americani in occasione del primaverile viaggio di Renzi a Mosca. In realtà in quell’occasione Renzi ha mostrato da un lato che l’Italia non può perdere di vista il proprio interesse nazionale (nello specifico il decisivo interscambio commerciale con la Russia) sull’onda emotiva di una guerra russo-ucraina che ha molte responsabilità e non tutte risiedono a Mosca (e nemmeno tutte a Kiev, considerate le ardite scelte dell’Alleanza Atlantica nell’immediato post ’89-’91). Dall’altro ha anche svolto il ruolo del “poliziotto buono” rispetto a Putin, mentre quello del “poliziotto cattivo” lo stava già impersonando Merkel. Ma soprattutto oltre a tenere vivo almeno il ricordo dello spirito di Pratica di Mare, Renzi ha voluto ricordare quanto sia decisivo (almeno potenzialmente) Putin per intervenire nel quadrante che dalla Siria porta sino alle coste libiche, passando per l’Egitto.
E questo richiamo all’area mediorientale e mediterranea conduce ad affrontare lo spinoso tema riguardante l’ultima direttrice della politica estera dell’Italia renziana. Anche su questo punto la diplomazia nazionale può vantare caratteristiche di originalità, dal neo-atlantismo fanfaniano e lapiriano al volontarismo craxiano degli anni Ottanta, senza dimenticare il ruolo cruciale svolto da Enrico Mattei e dalla sua Eni. Il quadro odierno è però al collasso e soprattutto pesano gli effetti degli sconvolgimenti successivi all’invasione americana dell’Iraq, alle primavere arabe e al magmatico scontro in atto, che assume i tratti della guerra civile, tra mondo sunnita e mondo sciita. Naturalmente in questa polveriera a cielo aperto l’emergenza del giorno è quella libica, anche perché direttamente legata ai tragici sbarchi di immigrati. Ebbene su questo punto Renzi è in difficoltà. Il dossier è ricco di insidie e chi avanza proposte ardite quanto irrealizzabili è soltanto un apprendista stregone. Un possibile punto di partenza per Renzi potrebbe essere quello di utilizzare il capitale di autorevolezza ad oggi conquistato proprio in termini di europeismo, atlantismo e politica verso Mosca. Esclusa categoricamente (e in maniera saggia) qualsiasi presa di posizione unilaterale da parte dell’Italia, Renzi dovrebbe cercare di convogliare le tre direttrici verso la quarta. In fondo per arginare la deriva mediterranea serve mobilitare la fino ad oggi assente “solidarietà europea”, servirà l’apparato militare atlantico e infine sarà indispensabile il contributo russo, per coinvolgere Siria ed Egitto e per evitare veti in chiave Onu. Il “rottamatore” che si è scoperto pragmatico sul fronte diplomatico dovrà davvero riscoprire anche le doti di tessitore per comporre un puzzle in apparenza mancante di numerosi pezzi. Dovrà farlo rapidamente e sotto i riflettori del mondo. Ma velocità e luci della ribalta non hanno mai intimorito il nostro Presidente del Consiglio.
di Paolo Pombeni
di Michele Marchi