“Questione tedesca” 2.0?
Gli stereotipi sui caratteri nazionali, si sa, sono duri a morire. Secondo un vecchio adagio, se si chiedesse a persone di diversa nazionalità di scrivere un libro sugli elefanti, si otterrebbe da un francese il trattato “Mille modi di cucinare l’elefante”, mentre un inglese racconterebbe “La volta che ho sparato a quell’enorme elefante”; la versione statunitense spiegherebbe “Come fare elefanti migliori e più grandi”, e quella giapponese “Come costruire elefanti piccoli ed economici”. Quanto a un tedesco, egli non si metterebbe all’opera per meno di “L’elefante e la “questione tedesca” in VI volumi”. È pur vero che di questione tedesca si ragiona sia fuori che dentro i confini nazionali almeno dal 1871, quando l’unificazione della Germania trasformò profondamente l’Europa e i suoi equilibri di potenza. Le conseguenze di allora non hanno cessato di proiettare un’ombra lunga e tragica sui decenni a venire. Se sia il caso di ragionare ancora oggi in termini di “questione tedesca” è l’interrogativo che Hans Kundnani pone al centro del suo libro “The Paradox of German Power”. Il volume, sintetico e di facile lettura, costituisce tanto un rapido excursus storiografico quanto uno stimolo al dibattito sulla crisi attuale dell’Europa e sul ruolo giocato da Berlino. Dopo che la Guerra Fredda aveva risolto il problema in modo brutale con la divisione della Germania in due stati, dopo che l’indomani della riunificazione aveva fatto parlare di una definitiva “europeizzazione della Germania” in virtù del Trattato di Maastricht, ha ragione chi oggi grida alla “germanizzazione dell’Europa” e ritiene che poco sia mutato rispetto ai precedenti tentativi egemonici di Berlino? Alla questione centrale se ne aggiungono altre di taglio storico, come l’appartenenza della Germania all’ “Occidente”, entità di sempre più difficile definizione nel contesto attuale; anche in questo caso il problema è tornato a riemergere ogniqualvolta le elite tedesche hanno mostrato di voler rimarcare la loro diversità intrinseca rispetto al progetto normativo dell’Occidente. È possibile interpretare come sintomo di una rinnovata volontà di autonomia il rifiuto tedesco di prendere parte all’operazione militare in Libia, per la prima volta in dissenso rispetto a entrambi i suoi principali partner del dopoguerra (Stati Uniti e Francia)? E non porta alle stesse conclusioni anche l’atteggiamento a dir poco riluttante della Cancelliera Merkel sulla vicenda ucraina? Kundnani rifugge da risposte facili e giunge a due conclusioni provvisorie ma efficaci. La prima è che la Germania odierna si confronta col proprio passato con ben maggiore disinvoltura (che non significa rimozione, sia chiaro). Per chi lo ricorda, il dibattito attorno al possibile intervento nella ex Jugoslavia alla fine degli anni ’90 fu animato dal frequente paragone tra quanto i serbi erano accusati di perpetrare ai danni della popolazione kosovara e gli orrori di Auschwitz: il senso di colpevolezza storica doveva sfociare in un impegno diretto per evitare la ripetizione di quegli orrori. D’altro canto, la discussione in merito al possibile intervento in Iraq nel 2003 fu accompagnata da una fase di diversa considerazione per il passato del popolo tedesco, vittima dei bombardamenti durante la seconda guerra mondiale. Per tale ragione, chi conosceva quelle sofferenze rifiutava di farsene artefice ai danni di altri. È evidente che tali argomentazioni furono usate strumentalmente dai governi in carica al fine di suffragare le scelte interventiste o meno per ben altre ragioni (in primis elettorali). Nondimeno la politica odierna del governo Merkel appare intenzionalmente scevra da riferimenti storici, a rivendicare un legame legittimo tra le decisioni da prendere e l’attuale interesse nazionale tedesco, anche quando questo prevede l’imposizione ad altri delle proprie preferenze.
Ma quale interesse? Qui la riflessione di Kundnani si fa particolarmente suggestiva. Non è più sul piano geopolitico che la Germania costituisce un elemento d’instabilità in Europa. Eppure, il paradosso storico di un paese troppo grande per stare al pari coi suoi vicini, ma anche troppo piccolo e impreparato per assumere un ruolo di piena egemonia con tutti i costi e gli obblighi che questo comporta, è riemerso in termini del tutto analoghi sul piano “geo-economico”. Forti del successo economico del paese, le autorità tedesche hanno centrato la propria retorica in Europa sul tema della stabilità, formulata però in termini eminentemente “tedeschi” (dei prezzi e del debito innanzitutto). Pur avendo usufruito di una buona dose di tolleranza quando i suoi sforzi per lo sviluppo economico della parte orientale del paese l’hanno portata a violare i parametri europei, la Germania oggi rifiuta di assumersi gli oneri che altrettanta flessibilità richiederebbe per rilanciare le economie di altri partner. Lo prova la reticenza di fronte alla prospettiva di mutualizzazione del debito europeo, o al contenimento del proprio surplus commerciale per favorire un riequilibrio a livello continentale. D’altro canto, si può essere certi che la difesa dell’Euro da parte di Berlino sia del tutto sincera solo perché esso corrisponde all’interesse nazionale: la sua debolezza relativa rispetto alla vecchia moneta nazionale favorisce enormemente le esportazioni verso i mercati emergenti, vero motore dell’attuale ciclo positivo.
Senza che questo esima gli altri partner dalle loro responsabilità, l’esistenza di un nuovo “paradosso tedesco” è evidente tanto nei rapporti di forza quanto nelle regole che oggi guidano l’Europa. La notizia eccellente è che un ritorno alla conflittualità armata di decenni fa è semplicemente impossibile. La cattiva è che, trasferite su un piano economico, le stesse dinamiche di sindrome da accerchiamento e di coalizioni pro e contro Berlino sembrano cronaca dei nostri giorni. E nemmeno stavolta promettono nulla di buono.
di Paolo Pombeni
di Giovanni Bernardini
di Novello Monelli *