Obama e Cuba: ben più di una “Guerra Fredda” da seppellire
Dean Rusk è stato il secondo più longevo Segretario di Stato (“ministro degli esteri”, per così dire) della storia statunitense, servendo sotto i due Presidenti Kennedy e Johnson per quasi tutti gli anni ’60 del secolo scorso. Le sue memorie, pubblicate all’inizio degli anni ’90, racchiudono il resoconto personale di quella fase di escalation globale della “Guerra Fredda” culminata nel disastro della guerra del Vietnam, per la quale egli non è esente da gravi responsabilità. Tra gli episodi più drammatici del suo lungo mandato, Rusk ricorda nei dettagli il summit tra Kennedy e la sua controparte sovietica Krusciov tenuto a Vienna del 1961. Molte, troppe speranze aveva suscitato la possibilità che una stretta di mano di fronte agli occhi del mondo inaugurasse un nuovo clima di fiducia reciproca e contribuisse a chiudere i tanti rischiosi dossier sul tavolo del confronto bipolare, dalla competizione nucleare alla divisione di Berlino, alla questione di Cuba. Due mesi prima, il tentativo di uno sbarco controrivoluzionario di esuli cubani era fallito nella Baia dei Porci, rivelando l’evidente coinvolgimento statunitense e favorendo di fatto l’avvicinamento a Mosca del governo dell’isola. Il vertice di Vienna si risolse in un fiasco clamoroso tra pesanti accuse e minacce reciproche, dovute secondo Rusk proprio all’illusione che entrambi i protagonisti nutrivano sulle potenzialità di una diplomazia personale improvvisata e mediatica. Il braccio di ferro globale ne uscì persino aggravato, con l’incremento delle spese per gli armamenti nucleari, con la costruzione del muro di Berlino, e con la crisi dei missili di Cuba che l’anno successivo avrebbe tenuto l’umanità sul baratro dell’annientamento atomico per tredici giorni. Mezzo secolo più tardi, in un contesto internazionale radicalmente mutato, quell’episodio continua a proiettare due moniti sui pur significativi risultati del recente Vertice delle Americhe di Panama.
Il primo è che una stretta di mano a favore di telecamere tra due rivali storici non è mai un punto di arrivo, e nemmeno una promessa vincolante. Questa volta, almeno, sia Obama che Raul Castro hanno predicato prudenza sin dalla vigilia, consapevoli che molto dipenderà da chi raccoglierà a breve il testimone che forzatamente essi dovranno cedere: per ragioni istituzionali il primo, vicino alla scadenza del mandato, e biologiche il secondo, ultraottantenne. Molto si sta scrivendo negli Stati Uniti sul presunto “asisst” che Obama avrebbe servito alla candidata alla sua successione Hillary Clinton. Quest’ultima si è affrettata a congratularsi per il risultato raggiunto, ricordando i suoi passati suggerimenti al Presidente in carica affinché favorisse il mutamento oggi in atto; e a garantire il suo futuro impegno affinché l’apertura si evolva in un miglioramento “dei diritti umani e della libertà di espressione” del popolo cubano. Più prosaicamente, alcuni commentatori rimarcano come l’iniziativa rinsaldi il Partito Democratico, da cui non sembrano levarsi voci di dissenso, e ne accresca l’appeal presso gli elettori latinoamericani delle nuove generazioni e gli imprenditori che nell’apertura a Cuba intravedono la possibilità concreta di (tornare a) fare affari nell’isola. D’altro canto, il campo repubblicano è apparso immediatamente diviso tra i due potenziali candidati Jeb Bush e Marco Rubio, impegnati su una linea tradizionale di intransigenza; e un terzo, il Senatore Rand Paul, che ha supportato l’iniziativa di Obama con la motivazione che 50 anni di embargo “semplicemente non hanno funzionato”. Quand’anche dalle prossime presidenziali dovesse emergere vincitore chi oggi plaude al nuovo corso, il pendolo della politica estera statunitense ha già mostrato in passato, e su questioni ben più cruciali, oscillazioni imprevedibili e repentine tra pragmatismo e idealismo, tra distensione e oltranzismo, tra duttilità e inflessibilità. Soltanto sei anni fa, su mandato del Presidente Obama, l’allora Segretario di Stato Hillary Clinton donava alla controparte sovietica un simbolico pulsante che doveva “resettare” il corso delle relazioni russo-statunitensi; difficile pensare che una sua futura presidenza si muoverà in tale direzione, nel momento in cui la questione ucraina è definita (erroneamente) da molti commentatori come la fonte di una “nuova Guerra Fredda”. Quanto a Cuba, il possibile ritorno della Clinton a una retorica intransigente e unilaterale dei diritti umani, analoga a quella impiegata durante il doppio mandato presidenziale del consorte, potrebbe forse accrescere il suo consenso in vista delle elezioni ma difficilmente contribuirebbe alla causa intrapresa da Obama.
Nulla è dunque scontato, soprattutto in ragione del secondo monito storico: da più di mezzo secolo, cioè dal summit di Vienna in poi, Cuba ha cessato di rappresentare un dato reale nella politica estera statunitense per assumere un carattere simbolico che va ben oltre la sua ridotta estensione geografica o la sua rilevanza geostrategica nei Caraibi. Nel contesto ideologico-militare della Guerra Fredda, Cuba era l’inaccettabile testa di ponte del comunismo nell’emisfero occidentale, e l’isolamento della prima equivaleva al contenimento del secondo. Durante gli anni ’90, il trionfalismo per la “vittoria” nella Guerra Fredda esibito dall’amministrazione di Bush (padre) sembrò per un attimo lasciare il posto ai primi tentativi di revisione pragmatica della politica di embargo esplorati da Clinton (marito) e dal suo staff; essi tuttavia finirono per soccombere alle necessità domestiche (come la rilevanza elettorale degli esuli cubani e delle loro organizzazioni più intransigenti) e a una sterile retorica universalistica sul progresso inarrestabile della democrazia. Con Bush (figlio), l’ostilità per Cuba assunse un nuovo valore simbolico nello shock post-11 settembre, quando l’isola fu sbrigativamente (e soprattutto infondatamente) inserita nel fantomatico “asse del male” che cospirava per la costruzione di armi di distruzione di massa e contro la sicurezza degli Stati Uniti. Sia dunque chiaro che le dichiarazioni di Obama, secondo cui le sue iniziative si limiterebbero a prendere atto che la Guerra Fredda è morta e sepolta, sono palesemente e volutamente riduttive. La riapertura dei rapporti con Cuba attraverso un negoziato paziente e pragmatico non può non implicare un processo autocritico del messianismo di cui spesso e volentieri la politica estera statunitense si è ammantata ben prima che la contrapposizione con l’Unione Sovietica ne diventasse l’espressione più evidente, e che certamente è sopravvissuta a quella sfida sotto nuove spoglie.
di Paolo Pombeni
di Giovanni Bernardini
di Pasquale Pasquino *