Il deficit di cultura politica che mette in difficoltà il paese
Può sembrare uno sfizio da intellettuali, ma il deficit di cultura politica che affligge il dibattito pubblico è un problema serio, perché quella non è roba da studiosi, ma sono i codici attraverso cui si comunica e ci si capisce.
Prendiamo un caso recente. Renzi propone quella che dovrebbe essere una banalità assoluta: un governo non negozia le leggi col sindacato, ma col parlamento da cui dipende. Apriti cielo: arrivano subito le reprimende sull’autoritarismo e la democrazia in pericolo. Eppure un tempo, neppure troppo lontano, avevamo sentito critiche feroci al ritorno al corporativismo, proprio perché le politiche economiche e sociali venivano contrattate colle rappresentanze di interessi (sindacati, confindustria, cooperative, ecc.) anziché col parlamento.
Abbiamo già avuto modo in questa sede di denunciare le sciocchezze sull’allarme suscitato dalla denominazione di partito “nazionale” perché si sostiene ricordi quello fascista. Nessuno che si sia alzato a dire in una sede con un po’ di audience che, veramente, già nel 1905 era nata una “Lega Democratica Nazionale” fondata da Romolo Murri e compagni, ed era un’espressione del movimento cattolico. Questo anche senza andare ad esempi più importanti fuori d’Italia che abbiamo già avuto modo di ricordare.
Giusto negli ultimi giorni ci sono state le polemiche contro le condizioni particolari in cui è avvenuta la deposizione del presidente Napolitano nel processo sulla presunta trattativa stato-mafia. Abbiamo sentito giornalisti vari tuonare che quanto avveniva era roba Terzo Mondo. Ovviamente pochi hanno obiettato che, veramente, tutti i sistemi costituzionali, tutelano in modo particolare le supreme cariche rappresentative come è quella del Presidente della Repubblica, perché non si può consentire che vengano trascinate nell’agone della polemica di parte. leggi tutto
C’è una svolta della Leopolda?
Al netto della incontestabile abilità retorica di Matteo Renzi nell’inventare immagini efficaci, si può vedere come una svolta nella politica italiana quanto è successo a seguito della manifestazione della CGIL e della convention della Leopolda ? Che questo sia accaduto almeno a livello tendenziale sembrerebbe fuori dubbio.
Quel che si è confrontato in questa occasione non è certo uno scontro fra una visione “di sinistra” ed una visione “di destra” sul futuro del maggior partito della politica italiana. Quelle sono categorie buone per lo show televisivo, non per l’analisi della nostra fase politica.
In realtà si è avviato uno scontro sul modello di governo che deve avere la nostra democrazia, ossia se si debba continuare nel sistema del “governo di direttorio” che è quello immaginato di fatto dal nostro sistema costituzionale, o se si possa passare ad un governo di partito fondato sulla concorrenza elettorale.
Vediamo di spiegarci. Il nostro sistema è stato sempre fondato su governi di coalizione. La scelta in questo senso venne fatta da De Gasperi nel 1948 quando pur disponendo la DC di un cospicuo successo elettorale egli volle un governo di coalizione associandosi alcuni partiti minori, alcuni collocati sulla sua destra, altri sulla sua sinistra. A Dossetti che avrebbe voluto una DC che trasformasse il successo elettorale nella presa in carico totale del governo del paese, lo statista trentino oppose il ragionamento che la DC aveva sì una imponente adesione nelle urne, ma non rappresentava appieno le classi dirigenti del paese, per cui doveva accettare di coinvolgerle nel governo attraverso i cosiddetti “partiti minori”. Molti osservatori dell’epoca, non scevri di pregiudizi anticattolici, plaudirono alla scelta “anti-integralista” del vincitore del 18 aprile 1948. leggi tutto
L’Europa e il monito di Napolitano
Non sappiamo se il contenzioso che sembra aprirsi fra Roma e Bruxelles sulla nostra legge di bilancio sarà proprio una tempesta in un bicchier d’acqua. Ieri sera sembrava già chiusa con un compromesso, ma vedremo. Certamente è una mossa che mostra da un lato una struttura tecnocratica della UE piuttosto ottusa, e dall’altra un premier italiano abilissimo a cogliere in ogni occasione la palla al balzo per consolidare la sua presa sull’opinione pubblica.
Sul primo versante c’è da notare che, in un’Europa dove la stima verso la UE non è esattamente ai massimi, i suoi uffici e vertici dovrebbero andarci cauti nell’apparire ottusi censori delle sovranità nazionali. Non sappiamo se davvero Katainen e i suoi pensino di compiacere la Merkel con i loro rilievi, facciamo loro sommessamente notare che i più gelosi custodi delle esclusive sovranità nazionali perché derivanti da veri mandati “democratici” (che ai funzionari di Bruxelles mancano) sono i giudici della Corte Costituzionale tedesca. Ora è facile rilevare che sulla politica di bilancio nazionale le competenze dei parlamenti nazionali eletti sono più “esclusive” (se ci si passa il pasticcio linguistico) di quelle dei ragionieri della Commissione (chiedano parere a Karlsruhe se hanno dubbi …).
Certo ci sono i trattati, i vincoli accettati da tutti, ma ci sono anche le situazioni storiche concrete e la necessità di poter contare sulla legittimazione popolare. Il presidente Barroso conclude non brillantemente una presidenza che brillante non è mai stata e dunque era pretendere troppo che si accorgesse del mutato clima. Sembra che Junker ne sia consapevole e fra sei giorni vedremo se è vero. leggi tutto
Un dibattito sfuocato
Che senso ha questo gran dibattere (si fa per dire) sulla “forma partito” in atto nel PD in un momento in cui il paese è alle prese con problemi assai seri circa il suo futuro? In realtà la questione del “partito” è un argomento per parlare d’altro e cioè per affrontare da un’ottica particolare il tema del mutamento degli equilibri del sistema sociale con cui si misura non solo il PD, ma tutta la nostra classe politica.
Se ci fosse un po’ di cultura storica, si vedrebbe subito che il modo di porre la questione è bizzarro, fatto per lo più da gente che, nelle direzioni di partito come sugli organi di stampa, ha un’idea piuttosto confusa della materia del contendere. Eppure ci sarebbe da imparare a mettere a fuoco l’argomento. Vediamo qualche punto.
Cominciamo col “partito pigliatutto” (catch all party nella formulazione originale), tradotto, ci sembra da Fassina, col peggiorativo “acchiappatutto”. Si è scritto che è la formula del partito americano. In realtà è una definizione resa corrente dal politologo Otto Kirchheimer a metà anni Cinquanta del secolo scorso per spiegare perché in Germania la CDU di Adenauer vinceva a man bassa e la SPD restava al palo. Spiegava Kirchheimer, che era riparato negli USA durante il nazismo, che i socialdemocratici volevano restare un partito di classe e dunque erano chiusi in un recinto, fra il resto obsoleto, mentre la CDU si allargava a comprendere tutti gli strati sociali, consapevole che una società moderna non rispondeva più ai canoni della sociologia scolastica marxista. leggi tutto
Scontri pericolosi
Non è lo scontro con la CGIL quello che deve preoccupare il governo, ma quello con le regioni. Le critiche del sindacato sono al momento armi poco efficaci. Può anche portare alle manifestazioni un numero consistente di persone, sfruttandone le paure rispetto ad un futuro indubbiamente carico di oscurità, ma non riesce a fare proposte. Infatti l’idea che la debolezza della attuale manovra sia la scarsità di “investimenti” rimanda alla vecchia teoria che la spesa pubblica possa creare l’occupazione che manca.
Così è stato in passato (si pensi al mitico gonfiamento degli impiegati alle Poste), ma oggi è impossibile da replicare: sia perché abbiamo un livello di indebitamento pubblico che non ce lo consente, sia perché le spese per infrastrutture, che rientrano in un’altra logica, hanno tempi lunghi per diventare operative e quei tempi in una crisi come quella attuale non sono sopportabili.
La gente queste cose quantomeno le intuisce e dunque su quel fronte Renzi non deve preoccuparsi più di tanto. Il fronte difficile che ha aperto è quello con le amministrazioni locali, regioni e comuni, che sono sul piede di guerra per una ulteriore manovra di tagli che li mette in difficoltà.
Questo tema è delicatissimo e Renzi fa male a trattarlo con sufficienza. E’ strano che un uomo politico che come lui ha fiuto per le pulsioni dell’opinione pubblica non capisca che sta mettendo mano ad una polveriera. Perché, diciamocelo chiaramente, il ritornello del “tagliate gli sprechi” funziona quando si spara nel mucchio, ma poi quando si scende nel concreto di ogni singola regione è un altro paio di maniche. leggi tutto
Labirinto italiano
Il dibattito che si è aperto sulle responsabilità per l’ennesima catastrofe ambientale a Genova dovrebbe essere istruttivo per il nostro sistema, ma temiamo che, al solito, non lo sarà. Non basta infatti proclamare come fa Renzi che “spaleremo il fango della burocrazia”, men che meno servono le sceneggiate di Grillo che vuole dimissioni di questo e di quello. La questione è capire come mai nel nostro paese non si riescono a spendere i soldi per investimenti necessari anche quando i soldi ci sono.
Si può semplicisticamente dare la colpa di tutto ai TAR e al cavillismo di cui è impregnata la nostra scienza giuridica? No, bisogna andare più a fondo.
Il problema del controllo giurisdizionale sull’attività della pubblica amministrazione, in cui rientrano, come vertici, anche gli amministratori locali eletti è in sé un principio di garanzia. Tende infatti ad evitare che, lasciate libere di fare quel che vogliono, le amministrazioni agiscano contro le regole e per interessi non limpidi, per tacere del pericolo di corruzione che nel nostro paese sta inquinando tutta la vita pubblica.
Detto questo, è però da chiedersi se il controllo di tipo formale alla azzeccagarbugli sia veramente il metodo migliore per ottenere gli obiettivi sacrosanti di cui sopra. Le cause davanti ai Tribunali Amministrativi, sia a livello regionale (TAR) che nazionale (Consiglio di Stato), non riguardano il merito delle questioni, cioè nel nostro caso se un appalto è stato assegnato ad una impresa perché collusa con l’amministrazione o ad una impresa che non era in grado di realizzare quanto richiesto, ma quasi sempre trattano questioni formali: se effettivamente la lettera del bando è stata scrupolosamente rispettata (con bandi scritti spesso coi piedi è come dire: mai), se effettivamente tutti i concorrenti avevano presentato ogni documento nella forma prescritta, ecc. ecc. leggi tutto
Un momento confuso
Tutti a chiedersi chi abbia vinto nello scontro Renzi-resto del mondo (politico) nella sfida sul jobs act. Pochissimi, ci sembra, a rilevare quanto il momento sia confuso e dunque sia un po’ inutile fare la conta di vincitori e vinti.
I nodi che abbiamo davanti sono infatti più d’uno. Certamente il tema del rapporto tra il premier e il PD non è secondario, ma forse non è neppure il più importante, almeno se lo si considera un tema a sé. Renzi ha al momento molte armi per piegare il protagonismo di una minoranza del suo partito che sembra più in cerca di visibilità che non capace di proporre una leadership alternativa.
Per inciso, notiamo che i rilevi di qualche pur autorevole commentatore come Antonio Polito sul “Corriere” circa il fatto che anche in parlamenti come quello americano, britannico o tedesco ci sono ribellioni dei membri del partito di governo contro il loro leader non dicono per intero la verità. In quei paesi infatti vige un sistema elettorale o maggioritario (USA e UK) o con possibilità di esprimere anche una preferenza alla persona (Germania) per cui gli eletti possono vantare con buone ragioni una scelta diretta dell’elettorato a loro favore. Questo in Italia, con le liste bloccate di partito, non esiste e dunque esiste il dovere morale dell’eletto di accettare le regole di militanza nel partito che gli ha dato l’opportunità della candidatura. Se ritiene di non poterle più accettare dovrebbe rimettere il mandato.
Ora invece siamo arrivati all’estremo per cui alcuni parlamentari PD annunciano di partecipare ad una manifestazione della CGIL contro il loro governo. Il fatto che ciò sia già accaduto ai tempi del governo Prodi non solo non giustifica, ma getta un presagio sinistro su questa contingenza. leggi tutto
Meno iscritti al PD: un dibattito sul nulla
I dibattiti fondati sul nulla non sono una rarità nella politica italiana, ma quello sul calo di iscritti al PD lo è in modo peculiare. Innanzitutto perché è uno scandalo (parola inutilmente grossa) su un fenomeno conosciuto da almeno un ventennio in tutto il sistema politico occidentale: la contrazione della “militanza di partito” interessa infatti tutti i paesi che fra Otto e Novecento hanno visto il fiorire e l’espandersi di quella che si definisce la forma-partito moderna.
Attribuire la causa di questo fenomeno all’avvento di Renzi alla guida del PD è scambiare la conseguenza con l’origine. Non solo perché, come è ovvio, il tesseramento e il reclutamento non sono nelle mani del segretario, ma proprio della base e dei quadri intermedi a livello locale (per lo più rimasti quelli di prima, convertiti o meno che siano), ma perché il fenomeno parte da più lontano e si sarebbe tranquillamente verificato anche con la permanenza ai vertici dei vecchi dirigenti.
Un tempo la sociologia politica, Maurice Duverger imperante, distingueva in tre livelli i gradi di adesione ad un partito: si andava dall’elettore, al “simpatizzante” (cioè all’elettore che rendeva pubblica in vari modi la sua scelta nelle urne), al “militante” (che era colui che, per così dire, prestava servizio permanente effettivo nella struttura di partito). Oggi andrebbe riconosciuto che le ragioni per essere “militanti” sono molto diminuite almeno a livello di massa. leggi tutto
Il gioco si fa duro?
Che cosa pensare della direzione del PD del 29 settembre? Renzi ha messo in scacco la vecchia guardia o è ancora una faccenda in itinere? Andiamo verso una normalizzazione della vita parlamentare o si prepara quanto meno una pericolosa frattura?
Sono tutte domande legittime e ragionevoli alle quali non è facile dare risposta, ma si può almeno tentare di ragionarci intorno.
Innanzitutto va notato che Renzi è riuscito ad attirare la vecchia guardia nella sua trappola: ha fatto recitare a loro la parte che la nuova commedia dell’arte assegnava a ciascuno. Così D’Alema ha fatto la sua caricatura di saputello sarcastico che vuol dispensare lezioni a tutti, Bersani quella dell’anziano che chiede rispetto ai giovani intemperanti (scambiando, infelicemente, critiche anche pesanti alla sua gestione politica per una “macchina del fango”), Civati quella dell’ideologo strabico che vede dappertutto “cose di destra”. Non stupisce che Renzi abbia considerato queste performance, impietosamente trasmesse non solo in streaming, ma dagli schemi di La 7, tutti punti a suo favore.
Tuttavia rimane da vedere se il consenso travolgente raccolto in quella sede sia sufficiente a garantire il proseguimento dell’esperimento di Renzi. D’Alema non si è trattenuto dal sottolineare che ci sarebbe una certa disaffezione delle elite verso una politica che viene presentata come leggera e fatta solo di annunci. Ciò è vero solo in parte. Indubbiamente vi sono centri decisionali della società (il termine “poteri forti” è roba da fumetti) che spingono per ottenere di più dall’attuale presidente del consiglio, ma perché pensano che potrebbe usare meglio il potere che ha, non perché pensino di farlo cadere. Sanno benissimo che in questo momento sarebbe una mossa suicida per il paese. leggi tutto
La vecchia guardia e le questioni sul tappeto
E’ noto che la vecchia guardia muore, ma non si arrende, e questo è stato confermato anche dall’andamento della direzione del PD di lunedì 29 settembre. Il fatto è che questa vecchia guardia sembra aver deciso di morire, non per evitare di arrendersi a Renzi, ma perché rifiuta di arrendersi al cambiamento della storia. Ci perdoni Bersani che sembra convinto che ricordare queste cose sia una applicazione del “metodo Boffo”, cioè sostanzialmente accusare senza fondamento di aver compiuto cose ignobili uno che la pensa in modo diverso, come sarebbe appunto il rimanere chiuso nel cerchio delle sue antiche convinzioni.
In realtà la discussione che si è svolta al Nazareno è stata surreale, perché nessuno ha voluto trattare del vero tema sul tappeto, che non è, ovviamente, la questione dell’articolo 18 presa isolatamente. Su quella è un gioco facile dire tutto e il contrario di tutto. D’Alema irride a chi non conosce la storia precedente e fa solo retorica, ma tace sul fatto che, comunque sia, l’attuale premier ha un consenso che nessuno dei precedenti segretari ha mai avuto. In più è facile ricordare che Stiglitz, da lui citato, ha dato una certa ricetta per la ripresa economica che è diversa da quella dei consiglieri di Renzi che non hanno avuto come l’economista americano il premio Nobel, ma omette di ricordare che in una occasione Stiglitz ha avuto apprezzamenti lusinghieri per il premier italiano. leggi tutto