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19 marzo 2025
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La lezione di Venezia

Paolo Pombeni - 16.06.2015
Luigi Brugnaro e Felice Casson

Come è triste Venezia … per il PD, ma in generale potrebbe suggerire utili riflessioni su quel che sta succedendo nel sistema politico italiano.

Innanzitutto quanto è avvenuto mostra che oggi la antica presunzione per cui l’astensionismo favorirebbe la sinistra non regge più. Un tempo la presunzione era che a disertare le urne fossero più che altro i “moderati”, mentre la sinistra, che si supponeva a forte base di militanza, non mancava mai di andare al voto. Nel caso veneziano non è evidentemente andata così, perché in realtà a disertare il voto al secondo turno si suppone sia stato l’elettorato grillino, che è superficialmente identificato con la sinistra. Superficialmente, perché in realtà si tratta di un movimento che sfugge alle consuete attribuzioni ideologiche e con cui dunque è molto difficile fare i conti. Quelli che si sono illusi che alla fine si potessero costringere nei vecchi recinti sarà bene si ricredano.

La seconda lezione da trarre è che i candidati contano per il loro radicamento sul territorio, per la loro capacità di essere accettati da una comunità vasta di persone e non per le loro perfomance nei vari noiosissimi talk show e per le polemichette sui giornali. Lo si è visto anche in altri contesti, ma a Venezia è stato quasi emblematico: l’illusione che bastasse puntare su qualche slogan che va per la maggiore (magistrato contro la corruzione, antirenziano, amico dei grillini, ecc.) è miseramente naufragata. Invece si è dimostrata vincente la candidatura “civica” e anche questo è un segnale, perché se ha vinto coi voti anche della Lega, di FI e di altre formazioni di centro-destra, è altrettanto vero che Brugnaro lo ha fatto guardandosi bene dal presentarsi come espressione di uno dei “partiti” in campo, anzi ci ha tenuto a dirsi disponibile alla collaborazione con tutti (da questo punto di vista il suo caso è diverso da quello di Toti in Liguria).

Il terzo elemento di cui sarà bene tenere conto è l’ennesima riprova che le “primarie” così come sono praticate in Italia (peraltro dal solo PD; quelle del M5S sono una commedia) non servono allo scopo. Infatti il loro obiettivo dovrebbe essere quello di sottrarre la scelta dei candidati ai “caminetti” dei partiti, affidandola al “popolo degli elettori-simpatizzanti”, che si suppone sia più in grado di scegliere le persone con maggior appeal per la generalità dell’elettorato.

Venezia da questo punto di vista è solo l’ultimo caso che ci mostra come invece le primarie siano da noi ostaggio delle lotte di corrente. Salvo rarissimi casi, come è stato con Prodi o con Renzi che avevano avuto una eco mediatica notevole, alla fine votano solo i gruppi organizzati che riescono a trascinarsi dietro un po’ di seguito extra-partito (a volte anche in maniera piuttosto discutibile). Il risultato è che ci si ritrova con candidati tipo appunto Paita, Moretti, Casson, che, pur assai diversi fra loro, non sono in grado di costruirsi un ampio consenso elettorale basato su una conclamata affidabilità.

Ci si può naturalmente chiedere se i vertici dei partiti sarebbero maggiormente capaci di mettersi in sintonia con le aspirazioni che mobilitano gli elettori. Ovviamente è più che lecito dubitarne, visto come sono ridotti attualmente, ma soprattutto tenendo conto del fatto che i vertici nazionali nel loro complesso fanno molta fatica a conoscere la realtà dei rispettivi partiti sui territori, sicché alla fine tendono ad affidarsi a chi promette semplicemente di vincere senza avere grandi strumenti per misurare la credibilità di quelle promesse (e anche la tenuta di queste candidature in caso di successo alle elezioni: vedi il caso di Marino a Roma).

Da un punto di vista generale andrà dunque valutato se abbia senso continuare a pensare che il sistema politico italiano si organizzi attraverso coalizioni basate su presunti “blocchi sociali” o se non sia giunta l’ora di fare i conti con un elettorato che è molto mobile e che in questa mobilità include senza traumi anche l’alternativa di disertare le urne. Pensiamo che per esempio sia un errore l’analisi che fanno dalle parti di FI (che, proprio fra parentesi, come partito è andata male) secondo cui “il vento è cambiato” e il centrodestra purché sia “unito” ha chance di vittoria.

Si è trattato infatti, dove la vittoria c’è stata, piuttosto della volontà di “rivincita” di un coacervo di sentimenti irritati verso il bullismo di certe scelte politiche della sinistra che non di una scommessa sulla capacità di leadership dei vertici dei partiti che stanno tentando di intestarsi quelle vittorie.

Per il PD il problema sarà la capacità di elaborare un discorso, piuttosto concreto, capace di apparire credibile al di fuori della cerchia dei suoi aderenti tradizionali, perché se Renzi non sfonda non solo al centro, ma anche recuperando consensi nell’astensione avrà pesanti difficoltà per mantenere la leadership. Certo le bizze di una opposizione interna, che cerca la salvezza nel mito del recupero di presunte purezze ideologiche (che, sia detto apertamente, non ebbe neppure il vecchio PCI dei suoi anni gloriosi), non aiutano il partito a guida renziana. Altrettanto va però detto che se  il premer segretario non esce dalle logiche dei suoi “cerchi magici” e non si acconcia a tessere la trama di un vasto consenso sociale chiamando all’impegno forze nuove dalla società civile, finirà per essere solo l’alleato occulto e inconsapevole di quelli che lo vogliono disarcionare.