Un groviglio da sbrogliare
La nostra situazione politica si va ingarbugliando e ciò comincia a diventare pericoloso. Il problema non è dato solo dal sovrapporsi e intrecciarsi di scelte complicate che stimolano gli “animal spirits” della classe politica (legge elettorale, riforma del Senato ed elezione futura del successore di Napolitano), ma dal fatto che lo stillicidio di scandali e di situazioni di tensione sociale apre continuamente nuovi spazi alle forze che cercano rivincite sugli attuali equilibri (precari) di potere.
Vicende come quelle della cosiddetta “mafia romana” confermano l’opinione pubblica nella convinzione che ormai la corruzione politica è incontrollabile. Quel caso oltre tutto sembra fatto apposta per certificare che neppure l’alternanza al governo è in grado di spezzare le incrostazioni di potere che stanno dietro l’intreccio perverso di politica e amministrazione. Aggiungiamoci che va anche a sostegno della tesi che il grande sperpero sta negli enti locali, il che è molto a vantaggio della deriva neocentralistica che è tornata a fare danni, come se lo stato fosse immune da quei virus (vedere la vicenda grandi appalti e protezione civile per credere …).
La politica esce male da queste vicende perché non sa come reagire. I partiti anziché prendere in mano le situazioni di corruzione grande e piccola che vengono a galla mettendo al lavoro inchieste interne e prendendo le decisioni del caso (espulsioni, sanzioni a chi ha selezionato un personale così scadente, ecc.) si trincerano dietro al mantra della “fiducia nell’operato della magistratura”. Così facendo danno l’impressione che se facessero le inchieste interne scoperchierebbero chissà quali pentole, perché gli indagati avrebbero modo di denunciare tanti altri per difendere loro stessi. leggi tutto
Un passaggio molto difficile
E’ un passaggio molto difficile quello che si appresta ad affrontare il nostro paese. Ci riferiamo alla successione di Giorgio Napolitano alla presidenza della repubblica. L’evento, annunciato qualche tempo fa in anteprima da Stefano Folli nella sua rubrica, è venuto confermandosi non per atti ufficiali, ma per comportamenti sempre più di chiarimento non solo di quel che sarebbe avvenuto (perché era noto che questo mandato presidenziale non sarebbe durato a lungo), ma per i tempi in cui si sarebbe verificato: appare ormai certo che Napolitano lascerà dopo il messaggio di fine anno, come tutti ripetono senza essere smentiti e come appare da un succedersi di eventi che hanno tutto il sapore di commiati.
Questo comportamento è da apprezzarsi perché mostra la sensibilità di Napolitano verso la delicatezza della situazione attuale. Non potendo evidentemente rimandare la sua decisione per ragioni che non esprime ma che lascia intuire, dovendo subite un ritiro prima che si avverassero le condizioni che aveva posto al momento della sua rielezione (far giungere in porto alcune riforme istituzionali importanti), il presidente è consapevole che la scelta del suo successore non sarà una passeggiata. Colla situazione politica attuale, con i partiti sfasciati o in fibrillazione profonda, con una crisi economica che morde sempre più gli equilibri sociali, la necessità di mettere al vertice dello stato una personalità che goda del rispetto generale e che di conseguenza sia in grado di reggere il ruolo di arbitro della nostra transizione sembra quasi essere la classica missione impossibile. leggi tutto
La politica post-emiliana
Come facilmente prevedibile, la politica sta già scontando i contraccolpi del risultato delle elezioni regionali in Emilia-Romagna. Secondo copione molti interpretano l’eccezionale livello dell’astensione (quasi al 63%) tirando l’acqua al proprio mulino: chi per proclamare il declino irreversibile di questa o quella forza politica (FI, M5S), chi per celebrare il preludio di una vittoria totale futura (la Lega), chi per dire che c’è la prova provata che non ci si può mettere contro la CGIL (la minoranza PD), chi per dire che in fondo non è successo nessun terremoto distruttivo (Renzi & company). In realtà i segnali sono già stati registrati e la politica si sta muovendo tenendo conto di quel che è successo (o di quello che si ritiene possa essere successo).
Lo si è visto nella vicenda dell’approvazione parlamentare del cosiddetto Jobs Act, ma possiamo pensare che sia solo un assaggio di quel che succederà. Il comportamento parlamentare del PD è da questo punto di vista interessante. I riflettori si sono puntati sulla trentina di deputati che pubblicamente hanno negato il loro voto al provvedimento, sottolineando come questi abbiano esplicitamente attribuito la diminuzione di voti del loro partito ad una presunta diserzione delle urne legata al conflitto fra Renzi e la CGIL. Anche se è probabile che una parte dell’astensione sia ascrivibile ad un fenomeno di quel tipo, bisognerebbe andarci piano col concludere che queste astensioni possano automaticamente trasformarsi in voti a favore di un nuovo partito “veramente di sinistra”. leggi tutto
Una lezione dall’Emilia?
Se una rondine non fa primavera, un risultato elettorale regionale non fa la crisi di una svolta politica. Però ambedue sono segnali che vanno inquadrati e decifrati in un contesto.
Quel che è accaduto nelle elezioni dell’Emilia-Romagna non è solo un indicatore inquietante della crisi complessiva della politica in Italia, ma è anche un campanello d’allarme per la leadership di Matteo Renzi. Sul primo versante un astensionismo che arriva al 62,33 % non è la sconfitta di un partito, ma di un intero sistema: significa che la maggioranza assoluta dei cittadini non considera più la politica come un terreno su cui meriti di impegnarsi. Con numeri di questo genere il rifiuto è collettivo, perché siamo chiaramente di fronte ad una presa di posizione di protesta, essendo inimmaginabile che oltre il 60% dell’elettorato sia fatto di gente che semplicemente non ha interesse per la cosa pubblica. Una parte almeno dell’astensionismo è in realtà una scelta di voto.
Ovviamente i partiti sono ormai tutti abituati a guardarsi l’ombelico, per cui ciascuno può esultare a prescindere da questo dato: il PD perché comunque ha portato a casa la vittoria, la Lega perché comunque ha battuto sonoramente Forza Italia, i grillini perché comunque hanno mostrato che possono essere dimezzati, ma non cancellati.
Per il PD il dato dovrebbe essere estremamente preoccupante, per cui c’è poco da cantare vittoria. I numeri sono impietosi: nelle precedenti amministrative Vasco Errani venne eletto “governatore” con 1.197.789 voti, mentre Stefano Bonaccini ne ha avuti 615.725; la coalizione che lo appoggiava raccolse allora 1.095.604 voti, mentre oggi ne ha 597.185. leggi tutto
Luddismo sociale?
Una volta nei sindacati e a sinistra tutti sapevano la storia di Ned Ludd, che nel 1779 sembra abbia guidato una rivolta di operai che sfasciarono delle macchine tessili, convinti che queste rubassero loro la possibilità di lavorare. Il termine “luddismo” passò così a definire tutte le manifestazioni in cui con rivolte irrazionali si sfasciano i prodotti dello sviluppo applicati all’industria nella illusione che questo possa riportare i lavoratori a godere dei vantaggi che si immaginano connessi alla situazione precedente.
Nei sindacati e a sinistra si spiegava con quella metafora che non ci si difende dal progresso, che certo può nell’immediato portare anche disagi, prendendosela con obiettivi irrazionali, perché invece bisogna adeguarsi e governare il cambiamento. Non è stato distruggendo i telai meccanici che gli operai hanno recuperato posti di lavoro.
Questa semplice lezione storica andrebbe rivisitata visto quel che sta succedendo di questi tempi. E’ inutile negare che la società italiana sia percorsa da correnti di ribellismo sociale il cui obiettivo è quello di “sfasciare”, metaforicamente ma troppo spesso anche materialmente, una situazione esistente nell’illusione che questo farà ritornare un mitico buon tempo antico. E’ un atteggiamento che coinvolge operai e giovani studenti, precari e garantiti, intellettuali e politici, tutti uniti dall’idea che si possa semplicemente fermare il mondo così come si sta evolvendo e instaurare una specie di età dell’oro in cui i problemi si risolvono semplicemente negandoli. leggi tutto
Emilia Romagna: una questione locale?
Domenica 23 novembre si vota anticipatamente in Emilia Romagna per il rinnovo del Consiglio e del Presidente dopo che Vasco Errani si è dimesso per correttezza istituzionale essendo stato condannato in appello per una vicenda legata ad un finanziamento erogato dalla regione a favore di una cooperativa presieduta da suo fratello (in primo grado era stato assolto).
Sono elezioni solo di interesse locale? La domanda è quanto mai pertinente. L’Emilia Romagna è stata in passato la regione-vetrina della capacità del PCI non solo di fare del “buon governo”, ma un governo innovativo ed inventivo. Di questa eredità il territorio è sempre stato fiero, anche se le sue capacità inventive sono appannate da decenni. Comunque è ancora la regione in cui la cooperazione è un colosso, in cui la sanità ha punte di eccellenza e in genere funziona bene, dove c’è un sistema universitario che vuol competere per l’eccellenza, dove ci sono enclave di industrie di avanguardia. Dunque ci sarebbero tutte le condizioni perché qui si assistesse a qualcosa che attira su di sé l’attenzione del paese.
Ci si aspetterebbe di vedere in questo passaggio se il ricambio di classe politica per fronteggiare una situazione di evoluzione storica complicata è avvenuto o meno; se ci sono “ricette” o più banalmente programmi significativi per fronteggiare la crisi attuale; se in presenza di una società che si presume molto civilmente politicizzata ci sarebbe stata la passione di vivere il momento elettorale come una occasione che la gente coglie per farsi sentire.
Ebbene, nulla di tutto questo sta avvenendo. La campagna elettorale, anche adesso a pochi giorni dall’apertura delle urne, è inesistente e priva di qualsiasi appeal. Le primarie per la selezione del candidato PD alla presidenza della regione si sono svolte tardivamente, dopo tira e molla poco edificanti, e si sono combattute all’insegna del preservare la continuità della “ditta” (questa è la regione di Bersani, di cui Errani era stretto collaboratore). leggi tutto
L’impasse della politica
Renzi vuole chiudere entro tempi relativamente brevi l’iter di almeno una parte delle riforme su cui ha scommesso per il successo della sua “svolta”, ma la partita si annuncia più difficile del previsto (e già nessuno l’aveva data per facile …). Al momento però sembra che l’orizzonte vada caricandosi di nubi più che di presagi di rasserenamento.
Non si capisce bene quanto fondamento abbiano i rumors su una crisi imminente della finanza pubblica per via del debito rilevante che grava sull’Italia, debito che, si sussurra, gli investitori internazionali non sarebbero più disponibili a sostenere. Al momento se ne parla a mezza bocca, a parte quelli che ci speculano sopra e che si lanciano volentieri in profezie catastrofiche, le quali però sembra lascino il tempo che trovano.
Al netto di questa incognita, rimane però il fatto che si scontrano tre fattori: la necessità di portare a termine due riforme improrogabili (la legge di stabilità, senza la quale si andrebbe all’esercizio provvisorio, prospettiva destabilizzante, e la legge sul lavoro), lo scoglio della riforma elettorale, l’improvvida apertura semi-ufficiale della campagna per la successione a Napolitano.
Legge di stabilità e Jobs Act confliggono con la riforma elettorale perché si sovrappongono in questo ultimo scorcio d’anno. Si tenga conto che in una politica ormai usa ai ricatti reciproci, avere tre leggi così importanti che vanno in parallelo significa esporsi a condizionamenti incrociati continui. leggi tutto
Ma esiste il centro in politica?
Mentre siamo impegnati a discutere quando Napolitano lascerà il Colle, come se non sapessimo che dipende da due variabili, la sua salute e la situazione politica che si lascerà alle spalle, sembra torni centrale il tema della legge elettorale. Questione importante, non c’è dubbio, e ricchissima di aspetti tecnici in cui è anche facile perdersi, ma anche un tema alla base del quale dovrebbe stare un rapporto con la realtà dello spettro politico con cui ci si vuole misurare.
Ora quello italiano è in profonda evoluzione ed è un punto che ci pare meriterebbe più considerazione di quella di cui è oggetto. In estrema sintesi esistono due quadri politici in un sistema elettorale competitivo: uno che è fondato sulla raccolta di gruppi “di interesse” ciascuno in un proprio partito; l’altro che vede i partiti come larghe coalizioni di interessi diversi che si compongono attorno a dei punti comuni.
Nella tradizione italiana postbellica, sino agli anni Ottanta del secolo scorso (all’incirca), prevaleva il secondo modello, in cui i centri di aggregazione comune erano, almeno per convenzione, degli universi sub-culturali (cattolici, laici, socialisti, comunisti,ecc.). Non che mancassero gli “interessi”, ma si suddividevano secondo quelle linee: tipicamente avevamo sindacati cattolici, social comunisti, laici; cooperative lungo le tre direttrici; associazioni degli studenti universitari organizzate più o meno così; e via elencando. Certo all’età d’oro che durò, sempre all’incirca, fino a fine anni Sessanta, seguì un ventennio di declino, ma fu un fenomeno lento e, ammettiamolo, distruttivo più che semplificatorio. leggi tutto
Il senso della misura non guasta …
Non per fare quelli che l’avevano detto, ma noi il rischio che Renzi finisse vittima di quella che abbiamo chiamato “la sindrome di Napoleone” l’avevamo scritto in uno dei primi numeri di “Mente Politica”. E’ quanto rischia di accadere con l’accelerazione che il premier ha dato alla rappresentazione di uno scontro virtuale (e neppure tanto) col resto del mondo. Passi per il confronto duro col sindacato, che però non andrebbe rimesso in scena e drammatizzato ad ogni occasione; passi per le denunce varie di boicottaggio alla sua opera di riformatore. La sua intemerata contro Bruxelles e la nuova Commissione Europea è però apparsa come una mossa azzardata e poco utile.
Speriamo che la Mogherini, adesso che è là, spieghi a Renzi che con queste mosse si sta mangiando il credito che si era guadagnato, perché appare invece che un coraggioso, ma consapevole riformatore, un don Chisciotte populista che non esita a speculare sull’antieuropeismo serpeggiante nel suo paese. L’Italia non ha certo bisogno di questo, soprattutto perché è bene non si illuda che in uno scontro di quel tipo troverebbe chissà quali sostegni nei partner. Junker non è Barroso e la situazione economica è talmente seria che di tutto c’è bisogno tranne che di perdere in credibilità con i mercati internazionali. leggi tutto
L’importanza e il condizionamento dei simboli
Sul fatto che l’ormai ultrafamoso articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori sia un “simbolo” più che un vero problema politico-legislativo in sé sono d’accordo quasi tutti. Su cosa ciò significhi e su quali condizionamenti ponga alla fase attuale della vita del paese i pareri sono più che divisi.
Semplificando, ma non troppo, una parte dei sindacati e l’autoproclamatasi rappresentanza della “vera sinistra” ne ha fatto il simbolo della tutela della dignità del lavoratore come persona. Se si ammette che a qualcuno il lavoro possa venire tolto senza “giusta causa” se ne fa una merce soggetta agli umori di chi la può “comperare”. Ovviamente in astratto il ragionamento non fa una grinza (ci si potrebbe chiedere perché allora il principio non debba valere dove non ci sono più di 15 dipendenti, ma lasciamo perdere).
Sul fronte opposto si obietta che le relazioni industriali sono così complesse nella società moderna che non considerare l’impiego di forza lavoro come una delle variabili del processo produttivo è illusorio. In tempi di cicli produttivi altalenanti, la possibilità di impiegare e disimpiegare risorse per il lavoro sembra necessaria. Se non lo si fa, si condanna il sistema o a contenere l’investimento in forza lavoro per non trovarsi in futuro gravati di costi non più sostenibili, o a fuggire verso lidi dove quella flessibilità sia presente. Ed anche in questo caso il ragionamento non fa una grinza. leggi tutto