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La strategia del Renzi 2

Paolo Pombeni - 28.07.2015
Bilanci europei

Il presidente del Consiglio non molla, neppure in vista della pausa d’agosto. Sente che intorno a lui molti stanno lavorando per indebolirlo, anche se pochi pensano veramente che sia possibile sostituirlo (per mancanza di alternative credibili). Renzi però sa che indebolito non può restare al governo, perché la figura che si è cucito addosso non prevede quel ruolo.

Dunque avanti con le riforme, anche se la strategia che le prevede non è senza rischi. In complesso il presidente-segretario è alle prese con tre tipi di riforme. Il primo tipo è quello classico delle riforme cosiddette di struttura e contempla la conclusione del progetto di riforma del senato. E’ il terreno che scalda meno l’opinione pubblica e preoccupa di più i professionisti della politica (in fondo i posti che abolisce sono i loro). Si tratta di un terreno difficile sul quale ci si muove di fatto in maniera incerta: in fondo c’è una disponibilità al negoziato con i dissidenti, purché non esagerino nelle loro richieste.

Il secondo tipo sono le riforme per così dire “di governo”. Lo è stata la riforma della scuola, a cui però per diventare veramente esecutiva sembra manchino almeno una ventina di procedimenti attuativi di varia natura. Ma possono partire le assunzioni di personale e questa è una buona mossa per guadagnare consenso. Molto importante la riforma della pubblica amministrazione da cui ci si aspettano sia risparmi (ma per quelli la strada sarà lunga) sia riduzioni di potere per la politica locale e per quella di natura corporativa. Qui però, come nel caso della scuola, ci sarà da fare i conti con la strana alleanza fra corporazioni ed ideologismi vecchia maniera. Si rischia l’apertura di uno scontro con entrambi quei fronti, scontro che è capace di ingarbugliare le carte e soprattutto di generare di conseguenza scontento e delusione fra i cittadini.

Infine ci sono le riforme del terzo tipo, quelle che mirano ad incidere sugli squilibri che hanno portato il nostro paese alla situazione infelice dei suoi conti pubblici. E’ questo che Renzi ha di mira con gli interventi sul sistema fiscale. Se si guarda bene ai terreni chiamati in causa si vedrà che alla fine è questo che li unifica. La tassa sulla prima casa, che non è tassa sulla ricchezza, ma tassa sostanzialmente a copertura dei servizi, copre un colabrodo di iniquità: il catasto ha valori sballati, metodi di calcolo antiquati, mentre poi al Sud l’abusivismo edilizio è diffuso e genera ulteriori ingiustizie. I comuni si giocano addizionali come fossero numeri al lotto e i cittadini non capiscono cosa stiano pagando e perché. Stesso discorso può valere per gli scaglioni IRPEF che in realtà colpiscono in maniera molto selettiva e poco realistica: basta vedere il numero ridottissimo di persone che denunciano redditi oltre i 150mila euro annui, cioè praticamente solo quelli che hanno posizioni apicali di lavoro dipendente. Gli altri, e non sono certo pochi, sfuggono in vari modi.

L’evasione fiscale, ma ancor più l’elusione (cioè la possibilità di trarre vantaggio dalle normative per chi non è lavoratore dipendente) hanno qui il loro nido.

La realtà dunque è che il governo ha bisogno di raccogliere denaro perché deve per forza cercare di ridurre un rapporto deficit-Pil che ha sta superando il 130%, ma non può certo farlo aumentando la tassazione con i sistemi attuali. Per allargare quella che eufemisticamente si definisce la “platea dei contribuenti” c’è bisogno di ridefinire il sistema nel suo complesso, ma perché questo sia accettato è necessario che si crei una base di consenso ampia: questo potrebbe arrivare appunto da una opinione pubblica che si sente “compresa” avendo ottenuto una rivisitazione del sistema fiscale attuale.

Una politica di questo tipo è senza dubbio audace e anche un po’ levantina, ma son cose che stanno nel personaggio Renzi. Il rischio maggiore deriva dal fatto che siamo di fronte ad una ridefinizione complessiva del nostro sistema sociale con le connesse relazioni di potere e questo non sta passando inosservato.

Di qui le reazioni che sono di tre tipi. La prima, scontata, è quella della vecchia classe dirigente di governo e di opposizione che non riesce a mandar giù che la riforma che essa aveva sperato di fare senza riuscirci, sia adesso avviata da un gruppo che non è uscito dal suo seno. La seconda, altrettanto prevedibile, è quella di coloro che non riescono a collocare quel che si sta facendo nelle geometrie dei loro schemi mentali e che di conseguenza giocano a fare le Cassandre che sanno predire il tempo lungo.

Sono reazioni che tutto sommato possono essere messe in angolo senza troppi problemi. La vera reazione pericolosa è quella del terzo tipo: coloro che si chiedono se valga la pena di mettere a rischio un po’ di riforme tutto sommato non troppo impegnative, per rincorrere un disegno di cambiamento globale che in questo paese rischi di far naufragare tutto scatenando la solidarietà di tutti gli immobilismi. I sostenitori di questa prospettiva sono tutto sommato contenti del dinamismo di Renzi, ma lo vorrebbero più contenuto e meno radicale.

E’ da questi che il presidente del consiglio deve guardarsi, perché in fondo mirano ad un renzismo senza troppo Renzi. Al momento non hanno alternative, perché il surrogato non è in produzione, ma non è detto che la linea per sfornare il prodotto non possa essere avviata. Il fatto è che, a prescindere dal giudizio che si può dare su questa strategia, essa richiederebbe un passaggio politico violento e tempi non proprio rapidi. Esattamente quello che l’Italia in questa fase della congiuntura internazionale pagherebbe carissimo.