Ultimo Aggiornamento:
15 novembre 2025
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Scontri pericolosi

Paolo Pombeni - 18.10.2014

Non è lo scontro con la CGIL quello che deve preoccupare il governo, ma quello con le regioni. Le critiche del sindacato sono al momento armi poco efficaci. Può anche portare alle manifestazioni un numero consistente di persone, sfruttandone le paure rispetto ad un futuro indubbiamente carico di oscurità, ma non riesce a fare proposte. Infatti l’idea che la debolezza della attuale manovra sia la scarsità di “investimenti” rimanda alla vecchia teoria che la spesa pubblica possa creare l’occupazione che manca.

Così è stato in passato (si pensi al mitico gonfiamento degli impiegati alle Poste), ma oggi è impossibile da replicare: sia perché abbiamo un livello di indebitamento pubblico che non ce lo consente, sia perché le spese per infrastrutture, che rientrano in un’altra logica, hanno tempi lunghi per diventare operative e quei tempi in una crisi come quella attuale non sono sopportabili.

La gente queste cose quantomeno le intuisce e dunque su quel fronte Renzi non deve preoccuparsi più di tanto. Il fronte difficile che ha aperto è quello con le amministrazioni locali, regioni e comuni, che sono sul piede di guerra per una ulteriore manovra di tagli che li mette in difficoltà.

Questo tema è delicatissimo e Renzi fa male a trattarlo con sufficienza. E’ strano che un uomo politico che come lui ha fiuto per le pulsioni dell’opinione pubblica non capisca che sta mettendo mano ad una polveriera. Perché, diciamocelo chiaramente, il ritornello del “tagliate gli sprechi” funziona quando si spara nel mucchio, ma poi quando si scende nel concreto di ogni singola regione è un altro paio di maniche. leggi tutto

Labirinto italiano

Paolo Pombeni - 16.10.2014

Il dibattito che si è aperto sulle responsabilità per l’ennesima catastrofe ambientale a Genova dovrebbe essere istruttivo per il nostro sistema, ma temiamo che, al solito, non lo sarà. Non basta infatti proclamare come fa Renzi che “spaleremo il fango della burocrazia”, men che meno servono le sceneggiate di Grillo che vuole dimissioni di questo e di quello. La questione è capire come mai nel nostro paese non si riescono a spendere i soldi per investimenti necessari anche quando i soldi ci sono.

Si può semplicisticamente dare la colpa di tutto ai TAR e al cavillismo di cui è impregnata la nostra scienza giuridica? No, bisogna andare più a fondo.

Il problema del controllo giurisdizionale sull’attività della pubblica amministrazione, in cui rientrano, come vertici, anche gli amministratori locali eletti è in sé un principio di garanzia. Tende infatti ad evitare che, lasciate libere di fare quel che vogliono, le amministrazioni agiscano contro le regole e per interessi non limpidi, per tacere del pericolo di corruzione che nel nostro paese sta inquinando tutta la vita pubblica.

Detto questo, è però da chiedersi se il controllo di tipo formale alla azzeccagarbugli sia veramente il metodo migliore per ottenere gli obiettivi sacrosanti di cui sopra. Le cause davanti ai Tribunali Amministrativi, sia a livello regionale (TAR) che nazionale (Consiglio di Stato), non riguardano il merito delle questioni, cioè nel nostro caso se un appalto è stato assegnato ad una impresa perché collusa con l’amministrazione o ad una impresa che non era in grado di realizzare quanto richiesto, ma quasi sempre trattano questioni formali: se effettivamente la lettera del bando è stata scrupolosamente rispettata (con bandi scritti spesso coi piedi è come dire: mai), se effettivamente tutti i concorrenti avevano presentato ogni documento nella forma prescritta, ecc. ecc. leggi tutto

Un momento confuso

Paolo Pombeni - 11.10.2014

Tutti a chiedersi chi abbia vinto nello scontro Renzi-resto del mondo (politico) nella sfida sul jobs act. Pochissimi, ci sembra, a rilevare quanto il momento sia confuso e dunque sia un po’ inutile fare la conta di vincitori e vinti.

I nodi che abbiamo davanti sono infatti più d’uno. Certamente il tema del rapporto tra il premier e il PD non è secondario, ma forse non è neppure il più importante, almeno se lo si considera un tema a sé. Renzi ha al momento molte armi per piegare il protagonismo di una minoranza del suo partito che sembra più in cerca di visibilità che non capace di proporre una leadership alternativa.

Per inciso, notiamo che i rilevi di qualche pur autorevole commentatore come Antonio Polito sul “Corriere” circa il fatto che anche in parlamenti come quello americano, britannico o tedesco ci sono ribellioni dei membri del partito di governo contro il loro leader non dicono per intero la verità. In quei paesi infatti vige un sistema elettorale o maggioritario (USA e UK) o con possibilità di esprimere anche una preferenza alla persona (Germania) per cui gli eletti possono vantare con buone ragioni una scelta diretta dell’elettorato a loro favore. Questo in Italia, con le liste bloccate di partito, non esiste e dunque esiste il dovere morale dell’eletto di accettare le regole di militanza nel partito che gli ha dato l’opportunità della candidatura. Se ritiene di non poterle più accettare dovrebbe rimettere il mandato.

Ora invece siamo arrivati all’estremo per cui alcuni parlamentari PD annunciano di partecipare ad una manifestazione della CGIL contro il loro governo. Il fatto che ciò sia già accaduto ai tempi del governo Prodi non solo non giustifica, ma getta un presagio sinistro su questa contingenza. leggi tutto

Meno iscritti al PD: un dibattito sul nulla

Paolo Pombeni - 07.10.2014

I dibattiti fondati sul nulla non sono una rarità nella politica italiana, ma quello sul calo di iscritti al PD lo è in modo peculiare. Innanzitutto perché è uno scandalo (parola inutilmente grossa) su un fenomeno conosciuto da almeno un ventennio in tutto il sistema politico occidentale: la contrazione della “militanza di partito” interessa infatti tutti i paesi che fra Otto e Novecento hanno visto il fiorire e l’espandersi di quella che si definisce la forma-partito moderna.

Attribuire la causa di questo fenomeno all’avvento di Renzi alla guida del PD è scambiare la conseguenza con l’origine. Non solo perché, come è ovvio, il tesseramento e il reclutamento non sono nelle mani del segretario, ma proprio della base e dei quadri intermedi a livello locale (per lo più rimasti quelli di prima, convertiti o meno che siano), ma perché il fenomeno parte da più lontano e si sarebbe tranquillamente verificato anche con la permanenza ai vertici dei vecchi dirigenti.

Un tempo la sociologia politica, Maurice Duverger imperante, distingueva in tre livelli i gradi di adesione ad un partito: si andava dall’elettore, al “simpatizzante” (cioè all’elettore che rendeva pubblica in vari modi la sua scelta nelle urne), al “militante” (che era colui che, per così dire, prestava servizio permanente effettivo nella struttura di partito). Oggi andrebbe riconosciuto che le ragioni per essere “militanti” sono molto diminuite almeno a livello di massa. leggi tutto

Il gioco si fa duro?

Paolo Pombeni - 02.10.2014

Che cosa pensare della direzione del PD del 29 settembre? Renzi ha messo in scacco la vecchia guardia o è ancora una faccenda in itinere? Andiamo verso una normalizzazione della vita parlamentare o si prepara quanto meno una pericolosa frattura?

Sono tutte domande legittime e ragionevoli alle quali non è facile dare risposta, ma si può almeno tentare di ragionarci intorno.

Innanzitutto va notato che Renzi è riuscito ad attirare la vecchia guardia nella sua trappola: ha fatto recitare a loro la parte che la nuova commedia dell’arte assegnava a ciascuno. Così D’Alema ha fatto la sua caricatura di saputello sarcastico che vuol dispensare lezioni a tutti, Bersani quella dell’anziano che chiede rispetto ai giovani intemperanti (scambiando, infelicemente, critiche anche pesanti alla sua gestione politica per una “macchina del fango”), Civati quella dell’ideologo strabico che vede dappertutto “cose di destra”. Non stupisce che Renzi abbia considerato queste performance, impietosamente trasmesse non solo in streaming, ma dagli schemi di La 7, tutti punti a suo favore.

Tuttavia rimane da vedere se il consenso travolgente raccolto in quella sede sia sufficiente a garantire il proseguimento dell’esperimento di Renzi. D’Alema non si è trattenuto dal sottolineare che ci sarebbe una certa disaffezione delle elite verso una politica che viene presentata come leggera e fatta solo di annunci. Ciò è vero solo in parte. Indubbiamente vi sono centri decisionali della società (il termine “poteri forti” è roba da fumetti) che spingono per ottenere di più dall’attuale presidente del consiglio, ma perché pensano che potrebbe usare meglio il potere che ha, non perché pensino di farlo cadere. Sanno benissimo che in questo momento sarebbe una mossa suicida per il paese. leggi tutto

La vecchia guardia e le questioni sul tappeto

Paolo Pombeni - 30.09.2014

E’ noto che la vecchia guardia muore, ma non si arrende, e questo è stato confermato anche dall’andamento della direzione del PD di lunedì 29 settembre. Il fatto è che questa vecchia guardia sembra aver deciso di morire, non per evitare di arrendersi a Renzi, ma perché rifiuta di arrendersi al cambiamento della storia. Ci perdoni Bersani che sembra convinto che ricordare queste cose sia una applicazione del “metodo Boffo”, cioè sostanzialmente accusare senza fondamento di aver compiuto cose ignobili uno che la pensa in modo diverso, come sarebbe appunto il rimanere chiuso nel cerchio delle sue antiche convinzioni.

In realtà la discussione che si è svolta al Nazareno è stata surreale, perché nessuno ha voluto trattare del vero tema sul tappeto, che non è, ovviamente, la questione dell’articolo 18 presa isolatamente. Su quella è un gioco facile dire tutto e il contrario di tutto. D’Alema irride a chi non conosce la storia precedente e fa solo retorica, ma tace sul fatto che, comunque sia, l’attuale premier ha un consenso che nessuno dei precedenti segretari ha mai avuto. In più è facile ricordare che Stiglitz, da lui citato, ha dato una certa ricetta per la ripresa economica che è diversa da quella dei consiglieri di Renzi che non hanno avuto come l’economista americano il premio Nobel, ma omette di ricordare che in una occasione Stiglitz ha avuto apprezzamenti lusinghieri per il premier italiano. leggi tutto

Simboli e Riforme

Paolo Pombeni - 25.09.2014

Il dibattito sull’art.18 non è così surreale come sembra. O meglio: è surreale quel che si dice nel merito, ma il suo significato nascosto mette in luce gran parte del problema della attuale fase della politica italiana.

La parte surreale è discutere su un punto che tutti, favorevoli come contrari all’abolizione, riconoscono non avere grandi effetti concreti immediati. Da un lato è vero che abolirlo (o meglio riformarlo a fondo) non creerà molti posti da lavoro, dall’altro è altrettanto vero che è poco serio difenderlo solo per chi ce l’ha, come se gli altri, che sono sempre più la maggioranza, fossero figli di un dio minore (naturalmente tutti sanno che la propaganda dell’ “estendiamolo a tutti” è appunto propaganda e basta).

Il contenuto concreto è che si tratta di una battaglia a forte valenza simbolica, il che non significa con contenuto fumoso, ma con la capacità di segnare visibilmente un tornante.

Il problema dell’Italia in questo momento è la scarsa considerazione che il suo sistema politico, economico e sociale gode a livello internazionale. Un paese in cui da quarant’anni o giù di lì si discute di riforme, di cambio di passo e via dicendo e in cui l’unico cambio è stato quello di liquidare un sistema di partiti, certo ormai logorato ed inefficiente, per sostituirlo con un altro che non si è rivelato migliore, è difficile che venga stimato capace di rispondere alla crisi che attanaglia in varia misura tutto il sistema occidentale. Il presidente Napolitano sembra essere rimasto tra i pochi a farsi carico di una risposta a questa emergenza, ma sembra anche che predichi al deserto. leggi tutto

La Repubblica senza i partiti

Paolo Pombeni - 18.09.2014

Si sono versati i classici fiumi d’inchiostro sulla “repubblica dei partiti”, ma forse è venuto il momento di chiedersi quali prezzi paghiamo per la sua dissoluzione. Non perché rimpiangiamo i partiti dell’ultima fase: sarebbe da masochisti. Piuttosto perché i partiti, così come erano stati concepiti dal nostro disegno costituzionale originario, servivano a garantire alcuni nodi fondamentali per garantirne il funzionamento. La loro sostanziale scomparsa inceppa inevitabilmente quegli ingranaggi che dipendevano da loro.

Gli studiosi ogni tanto ci avvertono che sta avvenendo quello che negli USA si è realizzato da un secolo: fine dei partiti come grandi aggregazioni di identità sociale, come luoghi di costruzione del consenso attraverso canali di partecipazione al dibattito politico. Al loro posto “macchine politiche” che servono solo per accedere alle candidature per le tornate elettorali ai vari livelli. Vinte quelle, il rapporto dell’eletto col partito tende a svanire. leggi tutto

Il nodo della giustizia

Paolo Pombeni - 16.09.2014

La questione giustizia è rilevante, ma sarebbe un errore circoscriverla ad una diatriba da lasciare in mano non tanto ai “tecnici” (il cui sapere serve moltissimo, se non è animato da spirito di parte), ma al lobbysmo delle varie componenti interessate, che non sono esattamente poche.

Per ragionare in maniera costruttiva su questa tematica, bisogna partire da un dato che, se non ci inganniamo, viene lasciato molto in ombra: la natura assai ambigua del rapporto fra magistratura e governo. Da un lato infatti stiamo parlando di uno dei tre poteri dello stato: accanto al legislativo, all’esecutivo, appunto il giudiziario. Tuttavia, e qui sta l’altro lato, questo potere non è chiaramente “autonomo” come lo sono gli altri due.

Infatti, mentre parlamentari e membri del governo decidono in autonomia su loro stessi e non hanno vincoli di dipendenza, la magistratura è di fatto formata da “funzionari”. Certamente la sua indipendenza è tutelata da un organo specifico, il Consiglio Superiore della Magistratura, ma fino ad un certo punto e non senza appunto ambiguità. Nel caso del parlamento e del governo l’indipendenza dei loro membri è da un lato a termine e dall’altro non esime la loro azione dall’essere soggetta a verifiche anche pesanti: il governo può essere sfiduciato dal parlamento, i parlamentari possono esserlo dagli elettori. leggi tutto

Pasticcio all’emiliana

Paolo Pombeni - 11.09.2014

Il gioco di parole è troppo facile, ma la verità è proprio questa: quello che sta combinando il PD in Emilia Romagna, col sostegno di una direzione nazionale piuttosto sbandata è un vero e proprio pasticcio. La questione, diciamolo subito, non è l’indagine su Bonaccini e Righetti per le cosiddette “spese pazze” nell’ambito dell’utilizzo dei rimborsi spese alla Regione Emilia-Romagna. E’ l’insipienza generale con cui si è gestito il problema della successione al potere di Vasco Errani e del sistema che si è mosso intorno a lui.

Intendiamoci subito: qui al termine “sistema di potere” non diamo alcuna accezione pregiudizialmente negativa. Quando qui come in qualsiasi altra istituzione c’è un vertice che rimane tale per 15 anni è inevitabile che esso lasci quella che una volta si sarebbe chiamata una “impronta”, ma che è più corretto chiamare un “sistema”: un modo di gestire la sfera del potere politico costruendo equilibri, cooptando forze, gestendo reti di relazioni, scegliendo chi privilegiare e chi emarginare o semplicemente ignorare. Scandalizzarsi per questo è da farisei: tutti i sistemi politici funzionano, inevitabilmente, così, c’è solo da chiedersi se hanno funzionato bene o male. leggi tutto