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E adesso?

Paolo Pombeni - 18.06.2015
Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio

Non sappiamo se la polvere delle risse interpretative sull’andamento della tornata elettorale si sia posata tanto da consentire un ragionamento, ma ci proviamo. In effetti la situazione non è semplice da decifrare, ma la sensazione è che quanto è avvenuto fra il 31 maggio e il 14 giugno potrebbe segnare un giro di boa nella vicenda di quella che ormai si avvia ad essere la Terza Repubblica.

Le interpretazioni, come era prevedibile e come è costume, divergono. A noi non sembra ragionevole attribuire alcuni macroscopici fallimenti del PD all’effetto dei provvedimenti sul lavoro e sulla scuola. Non si vede perché a Venezia, o in Veneto, o in Liguria ci siano ragioni particolari per spiegare come qui quei provvedimenti abbiano affossato il progetto renziano, mentre in Campania o alle regionali toscane questo non sarebbe avvenuto. Cavarsela dicendo che in quei casi hanno prevalso “fattori locali” è una contraddizione in termini, perché non si capisce perché negli altri casi i fattori locali avrebbero dovuto invece sparire per lasciare il posto a dinamiche nazionali.

Altrettanto poco credibile è la favola della rinascita della “destra dei moderati”. A parte il successo della Lega di Salvini, che “moderata” proprio non è, Berlusconi non è mai entrato in campo in questa competizione, né si può dire abbiano giocato alcun ruolo i suoi uomini. Certo gli elettori che in passato hanno fatto la fortuna di quella componente hanno in una certa quantità alimentato le alternative “civiche” al potere locale della sinistra, ma questo è stato più un comprensibile riflesso condizionato di chi comunque non voleva arrendersi a cambiare campo che non una prova di fiducia nelle vecchie leadership a cui i “civici” hanno accuratamente evitato di fare riferimento.

L’astensionismo di massa, che per le sue dimensioni coinvolge senz’altro sia elettori di destra che di sinistra, è il fenomeno nuovo, che non si riesce ancora a capire se dipenda da un momento particolare segnato dal disgusto per la politica o se sia una specie di conquista stabile di una quota della cittadinanza che ritiene di poter gestire i propri affari (piccoli o grandi che siano) senza dover fare riferimento ad un universo politico.

Certo rimane l’incognita interpretativa del M5S. Si può continuare a pensare che sia il collettore brillantemente inventato per catturare le tensioni dei cittadini che vorrebbero semplicemente fare una specie di “reset” della politica attuale. Sarebbe meglio però prendere coscienza che la tenuta parlamentare del movimento inevitabilmente lo radica, almeno per una fase, e dunque costituisce una base su cui vanno ad innestarsi elezione dopo elezione i nuovi venuti. Questo significa che, a dispetto di tutti i proclami di purezza movimentista, M5S dovrà per forza “routinizzarsi” (come si dice in gergo), cioè assumere una dimensione stabile compatibile con la sua presenza nella dialettica politica.

Qualcuno si sta già accorgendo che in realtà anche lì stanno emergendo leader interni con una certa stabilità, i quali hanno marginalizzato i protagonisti della prima fase ruspante, e che questi hanno imparato una dialettica più articolata e una presenza pubblica più capace di attrarre consensi. Qualche volta tornano ovviamente i vecchi slogan, ma la musica di sottofondo è un’altra.

Per registrare il cambiamento non basta ridursi ad affermare che la competizione politica è oggi in Italia “tripolare”, perché in realtà a parte l’ipotetico polo grillino, gli altri due sono campi piuttosto confusi: tanto la destra, quanto la sinistra sono campi dove vediamo in corso lotte intestine piuttosto cruente e non particolarmente limpide.

A questo punto la questione diviene davvero quella delle leadership, perché adesso il vero obiettivo è la capacità di federare e possibilmente fondere in un blocco stabile forze disperse sulle varie rive (ideologiche e sociali): solo così sarà possibile, almeno in un certo tempo, ricostruire una dialettica politica capace di riconquistare una quota significativa degli astenuti.

Questa leadership a destra non c’è, non almeno con capacità federative forti, a meno che Salvini non riesca a convincere i moderati che non c’è salvezza fuori del suo radicalismo. A sinistra la leadership di Renzi è contesa, ma per lui sarà difficile federare senza prima sconfiggere definitivamente i suoi avversari interni, il che significa avere tempi lunghi per ricostruire l’unità sulle rovine di questa battaglia. Ma il tema riguarda anche il M5S che avrà bisogno anch’esso ad un certo punto di avere l’uomo o la donna immagine: e qui sarà come si dice una gara dura, perché ci sono Grillo e Casaleggio.

IL fatto è che di tempo per fare queste operazioni ce n’è molto poco: con quel che incombe sul nostro orizzonte è difficile pensare che la gente possa aspettare tranquillamente che i partiti ritrovino le capacità di governo e di convivenza che pure un tempo hanno avuto.