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Vedere meno o vedere meglio? La propaganda dell’Isis e i crucci deontologici dell’informazione

Maurizio Cau - 05.03.2015
Rai News 25/02/15

La decisione della redazione di Rai News di interrompere la riproduzione dei video propagandistici di Isis, seguita a distanza di qualche ora da un analogo appello dell’Ordine dei Giornalisti e del Consiglio Nazionale degli Utenti, ha riproposto il tema dei limiti imposti all’informazione nell’uso delle immagini. Da un lato si rivendica la necessità da parte dei media di documentare, anche nei suoi risvolti più brutali, gli eventi che scuotono il panorama internazionale; dall’altro – è il caso della testata giornalistica diretta da Monica Maggioni - si sottolinea il pericolo che trasmettendo le immagini della barbarie alimentata dall’esercito jihadista  ci si renda strumento della loro azione di propaganda.

Che fare, dunque? Mostrare tutto per denunciare il volto dell’inumano e, così, fornire alla coscienza dei cittadini e all’opinione pubblica internazionale gli strumenti per leggere la realtà circostante, o contrastare il nemmeno troppo velato valore propagandistico della campagna mediatica del Califfato per non amplificarne la portata? La risposta non è scontata, né univoca.

Un secolo di riflessione sui fondamenti della cultura fotografica non è del resto riuscito a risolvere la questione delle fragilità e delle contraddizioni legate al valore testimoniale delle immagini, siano esse prodotte dai fotografi delle agenzie di stampa o dalle mani dei protagonisti delle vicende di cui è resa testimonianza visiva. Che ci si muove entro un orizzonte assai insidioso lo hanno ricordato in anni passati gli ammonimenti di Susan Sontag circa il rischio anestetizzante legato a una sovraesposizione alle rappresentazioni del dolore, o le più risalenti riflessioni di Roland Barthes sul rischio che il sovraccarico d’orrore fissato nelle immagini addomestichino lo sguardo privandolo dello slancio necessario a farsi decisione.

Segnata da una proliferazione senza precedenti delle fonti visive e narrative, la rivoluzione mediale che sta caratterizzando la società contemporanea pone interrogativi sempre più urgenti non solo rispetto all’assuefazione visiva a cui sembriamo condannati, ma anche al delicato discrimine tra la valenza documentaria delle immagini e il loro valore più o meno scopertamente ideologico. Come è ricordato nella bella e importante mostra Questa è guerra curata da Walter Guadagnini e inaugurata a Padova sabato 28 febbraio, «i fotografi che raccontano le guerre degli anni Duemila si muovono nell’ingordigia visiva di una società sempre più definita dall’immagine riflessa di se stessa, propagata all’infinito e in ogni direzione dalla ragnatela del web e dei mezzi di comunicazione».

La funzione propagandistica dell’orrore non è certo un’invenzione dell’Isis. Basti pensare, a solo titolo di esempio e per restare a esperienze a noi vicine, alla riproduzione fotografica della morte di Cesare Battisti diffusa un secolo fa in grande numero dagli organi di informazione dell’esercito austroungarico o all’immagine – siamo alla fine degli anni Trenta – della testa del capo dei ribelli etiopi giustiziato per conto del generale Graziani ed esibita in una scatola di latta. Contesti (e usi delle immagini) ovviamente molto lontani dalla sceneggiatura dell’orrore messa in scena dal movimento jihadista, ma per certi versi simili nell’utilizzo propagandistico e nell’esaltazione che fanno del medium visivo.

La scelta di non trasmettere le immagini pensate, prodotte, montate dagli assassini rompe (forse depotenziandolo) il flusso comunicativo che le forze dello Stato Islamico indirizzano alla volta del nemico occidentale e degli attivisti della lotta jihadista. Evitare le secche della pornografia dell’orrore comporta però, inevitabilmente, una sorta di impoverimento testimoniale rispetto a quanto avviene in queste ore nei territori soggetti al dominio dell’Isis.

Le istanze di autocensura fatte proprie dall’Ordine dei Giornalisti hanno incontrato un largo consenso nell’opinione pubblica, non solo italiana. Non sono mancate però le voci di chi al giornalismo chiede di proseguire, pur criticamente e in forme misurate, a riprodurre delle immagini delle violenze jihadiste. La replica di chi difende la bontà della scelta deontologica avanzata dai vertici di Rai News insiste sul fatto che, dopo aver favorito nel pubblico occidentale la formazione di una piena consapevolezza rispetto agli obiettivi dell’Isis e alle forme della sua lotta, la visione di quelle immagini avrebbe ampiamente esaurito la propria portata testimoniale. Resta peraltro il dubbio che, almeno in parte, la scelta di non assecondare il terrore mediatico dell’Isis sia figlia di una sorta di strategia auto-difensiva (non vedo/non soffro) ancor prima che di una comprensibile logica deontologica legata al rispetto del grado minimo di umanità che l’immagine giornalistica dovrebbe rispettare.

Quella di non mostrare le immagini della violenza esibita dai miliziani dell’Isis e di colmare il conseguente vuoto informativo attraverso la mediazione del racconto giornalistico è una via giustificata da molte ragioni. Non è però l’unica. Un’alternativa, che chiamerebbe in causa in forme altrettanto decisive il ruolo mediatore dell’informazione giornalistica, sarebbe quella di continuare a mostrare parte di quei video svelandone la natura ambigua, la grammatica propagandistica e la valenza simbolica. E destrutturandone il racconto mettendo in evidenza le logiche discorsive e le eventuali incongruenze (è il caso del sovraccarico narrativo e delle concessioni alla finzione utilizzate in occasione dell’uccisione dei 21 egiziani cristiani sulle rive del mare libico) che ne stanno alla base.

Insomma, vedere meglio, più che vedere meno. A partire da uno dei più vitali format che la propaganda dell’Isis ha prodotto e lanciato massivamente: quella dei cosiddetti mujatweet, brevi video che mescolando l’estetica selfie e il linguaggio pubblicitario raccontano l’altra faccia dell’orrore, quella serena e prospera della società governata dalla legge dei kalashnikov.