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La padella e la brace
Gran dibattito se convenga andare presto ad elezioni, massimo entro giugno, o far lavorare di più governo e legislatura, minimo fino a settembre, magari fino alla scadenza della legislatura l’anno prossimo. E’ la classica scelta fra la padella e la brace, perché la questione centrale è come si possa gestire una fase molto difficile con una lotta continua fra partiti e capi e capetti dei partiti, lotta che non può non riflettersi sul governo e sulla credibilità del nostro sistema e che in ogni caso non sembra possa cessare.
La congiuntura difficile dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti: sistema bancario in crisi (adesso anche Unicredit, seconda banca, è in difficoltà), disoccupazione che non si riesce a contenere, ripresa che non decolla, richiesta della UE di una manovra di bilancio che rispetti le regole comunitarie. E tacciamo dell’emergenza terremoto. Non bastasse, si presentano alcune condizioni internazionali di cui sarebbe opportuno tenere conto. Non ci sono solo le incognite dell’avvio della presidenza Trump e delle turbolenze per l’avvio della Brexit, che già non sarebbero poca cosa. Le due tornate elettorali in Francia e in Germania sono altrettanto problematiche perché costringono i sistemi politici di due paesi chiave della UE a tenere conto
Un nuovo bipolarismo (imperfetto)
L'ipotesi che, dopo le prossime elezioni politiche, la destra lepenista di Salvini e Meloni si allei col M5S per formare un governo appare improbabile. Alcune convergenze in materia di politica estera, immigrazione e soprattutto sull'euro spingono alcuni a ritenere che ci sia spazio per una collaborazione. Forse, però, la situazione è diversa. Mentre nel 2013 avevamo visto il bipolarismo della Seconda Repubblica lasciare il posto al tripolarismo (centrodestra, centrosinistra, M5S), oggi appare chiaro che la distinzione principale - almeno quella percepita da parte non irrilevante dell'elettorato - è pro o contro l'euro e l'Unione europea: una sorta di nuovo bipolarismo, molto imperfetto. La contrapposizione destra-sinistra perde forza se abbiamo da un lato un partito che "si chiama fuori" da questa distinzione (il M5S) e dall'altro due blocchi che dovrebbero essere compatti e contrapposti, ma che in realtà non lo sono (nell'ex centrosinistra lo strappo fra il Pd e le forze di sinistra radicale è ben lungi dall'essere ricucito; nel centrodestra le distanze fra Forza Italia e Lega-FdI, a maggior ragione dopo l'elezione di Tajani alla guida dell'Europarlamento e la vittoria di Trump negli USA, si accentuano anzichè ridursi). Oggi il partito di Berlusconi è più vicino al PPE, alla Merkel e persino al Pd di Renzi di quanto lo sia rispetto agli alleati lepenisti italiani. leggi tutto
La democrazia "migliore"
Spesso, nel dibattito politico quotidiano, si tende a marcare la differenza e la contrapposizione con gli avversari affermando la supremazia del proprio partito e dei propri elettori: i "migliori" contro gli altri (intesi come incapaci, corrotti, diffusori di notizie false e di ideologie fuorvianti e via dicendo). Si tratta di un modo per tenere uniti i sostenitori e per segnalare alla parte dell'elettorato del partito un po' meno fedele e affezionata che un'altra scelta non solo non è possibile, ma che è suicida. Il concetto di “migliore” è stato analizzato con cura da Antonio Campati in un suo recente volume ("I migliori al potere - La qualità nella rappresentanza politica" - ed. Rubbettino). Secondo Campati, "l'idea-concetto di qualità si incontra e, in un certo qual modo, si scontra con l'ideale democratico; in altri termini, quello che possiamo definire come il principio qualitativo della classe politica - la necessità di qualificare le élite di comando - non solo è (ancora) parte centrale della teoria democratica, ma si interseca con non pochi interrogativi problematici che da essa vengono sviluppati". In altre parole, al di là dell'uso propagandistico che si può fare del concetto, c'è una delle più grandi questioni irrisolte del dibattito sulla democrazia: in un sistema che tende a rappresentare, leggi tutto
La politica e i capponi di Renzo/i
Qualcuno si ricorderà della metafora suggerita dal Manzoni ne “I Promessi Sposi” quando descrive Renzo che va dall’avvocato Azzeccagarbugli portandogli in dono quattro capponi che tiene in mano stringendoli per le zampe legate insieme e a testa in giù, con le povere bestie “ le quali intanto s'ingegnavano a beccarsi l'una con l'altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura”. Se Manzoni avesse in mente una riflessione generale sull’umanità o alludesse all’incapacità degli italiani di far causa comune per il loro futuro è materia di discussione. Può essere che siano vere entrambe le cose. Certo la metafora, nell’uno e nell’altro senso, è più che mai valida oggi.
La politica italiana è messa di fronte ad una situazione quanto mai complicata, ma le forze politiche che dovrebbero governarla assomigliano davvero ai famosi quattro capponi: sia perché stanno a testa in giù e sono nelle mani di una congiuntura piuttosto difficile, sia perché in queste condizioni pensano solo a beccarsi fra loro.
L’elenco delle nostre difficoltà è sempre quello e la cosa potrebbe risultare noiosa, non fosse che invece dovrebbe preoccupare proprio il fatto che non si riesce ad archiviarlo. Monte dei Paschi e le banche sono sempre lì, così la nostra debole situazione nel contesto UE, leggi tutto
Una fase complicata
Non è un momento facile per la politica italiana, sebbene guardando alla situazione da un altro angolo di osservazione la si potrebbe ritenere molto più tranquilla di quanto si prevedeva agli inizi di dicembre. Se infatti ci limitiamo a considerare l’avvio del governo Gentiloni, non possiamo far a meno di notare che esso non è, almeno per ora, né la fotocopia o l’avatar del governo Renzi, ma neppure un esecutivo fantasma messo lì solo per scaldare la sedia. Con tutti i limiti che gli impone la contingenza, Gentiloni e i suoi ministri chiave (su altri è opportuno stendere un velo pietoso) stanno assolvendo in maniera più che dignitosa il compito di gestire la “amministrazione” (e in qualche caso “il governo”) di una delicata fase di passaggio.
Infatti il tema centrale è proprio dato dalla precarietà in cui il paese è immerso circa la ridefinizione degli equilibri politici delle sue classi dirigenti: a cominciare da quelle parlamentari e governative, ma poi a cascata tutte le altre, perché in Italia tutto è connesso.
La prima delicatissima questione che verrà in campo, proprio quando i lettori avranno davanti questo articolo, è la posizione e il ruolo che verrà ad assumere la Corte Costituzionale. Una spericolata scelta delle classi politiche è stata quella di chiederle di scendere in campo dirimendo, leggi tutto
Il sano realismo del Quirinale
Fra il primo messaggio di fine anno del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e quello dello scorso 31 dicembre c'è più di un punto di continuità, anche se il 2016 della politica italiana è stato un anno di svolta e - per certi versi - di cambiamento. La bussola del Quirinale, tuttavia, resta la stessa: la Costituzione. Se nel 2015 il discorso di Mattarella era stato una sorta di rassegna dedicata alla Carta repubblicana, nel 2016 il Capo dello Stato ha concentrato la sua attenzione su pochi punti essenziali, per primo il lavoro, "il problema numero uno del Paese", che impedisce a "troppe persone a cui manca da tempo" di "sentirsi pienamente cittadini". In altre parole, quell'articolo 1 della Costituzione, che molti reputano un artificio retorico ("la Repubblica fondata sul lavoro") è invece alla base della nostra convivenza: "non ci devono essere" - come ha detto Mattarella - "cittadini di serie B". Non è solo una questione di dignità personale, ma di rispetto del principio di uguaglianza e di piena appartenenza a quella comunità nazionale alla quale il Capo dello Stato ha più volte fatto riferimento: una comunità che "va costruita giorno per giorno, nella realtà", condividendo valori e doveri, rafforzando la coscienza civica, chiamando tutti - soprattutto chi ha maggiori responsabilità - a dare l'esempio e ad ascoltare leggi tutto
Alla ricerca della pietra filosofale (politica)
Siamo all’ennesimo dibattito per la ricerca di una legge elettorale che rimetta in sesto il nostro disastrato sistema politico. Se ci è consentito, vorremmo dire che si tratta di un dibattito stucchevole che appassiona solo i politici di professione (per l’ovvia ragione che ne va del loro futuro personale), mentre coinvolge molto poco la gente normale che non si raccapezza in astruserie e tecnicismi di cui non comprende le ragioni. Il fatto è che ormai per la classe politica italiana, dalla crisi della prima repubblica in avanti, la questione elettorale è diventata quello che nel medioevo era il tormento per la ricerca della pietra dei filosofi a cui si attribuiva la capacità di trasformare per semplice contatto i metalli vili in oro.
In fondo tutti vorrebbero credere che esista un sistema mirabile grazie al quale si può perfettamente combinare rappresentatività e governabilità, stabilità e mobilità, in modo che il voto degli elettori ci consegni un paese emendato dalle pecche della nostra decadenza politica (che, naturalmente, ciascuno vede nell’impossibilità di diventare “lui” il perno decisore del sistema).
Spiegare che un tale sistema non esiste, né se lo si immagina a prescindere dai vincoli esistenti, né se cinicamente lo si riduce a “porcata” con cui battere gli avversari, leggi tutto
L'anno che verrà
La fine della campagna referendaria e l'insediamento del governo Gentiloni non hanno portato al Paese la serenità che sarebbe opportuna per superare mesi di aspre contrapposizioni. Nonostante l'azione del Capo dello Stato e l'indole moderatrice del nuovo Premier, l'anno che ci attende sarà contraddistinto dal proseguimento dell'ormai eterna battaglia elettorale. La prima metà del 2017, infatti, sarà caratterizzata dal congresso del Pd e da due appuntamenti elettorali: uno con le amministrative (si voterà in un migliaio di comuni), l'altro con i referendum abrogativi (sui licenziamenti - in pratica sull'articolo 18 - sui voucher nel lavoro accessorio, sulla responsabilità solidale in materia di appalti) ai quali molto probabilmente la Consulta darà il via libera entro il 20 gennaio. Sempre la Corte Costituzionale sarà protagonista di un altro passaggio-chiave della legislatura: la pronuncia sull'Italicum. Le forze politiche attendono con ansia la sentenza - che però non arriverà prima del 24 gennaio - e che potrebbe portare a tre esiti possibili: 1) le obiezioni di costituzionalità potrebbero essere dichiarate inammissibili (in fondo la legge non è ancora stata applicata ed è difficile valutare se leda dei diritti); 2) la questione di legittimità costituzionale potrebbe essere respinta, lasciando la legge inalterata; 3) potrebbero, infine, essere accolte una o più censure, tra le quali quella sul ballottaggio (non è chiaro con quali conseguenze: dipenderebbe dalle argomentazioni della Corte). leggi tutto
Un governo di transizione?
E’ troppo semplicistico liquidare il governo Gentiloni come “fotocopia” o come “avatar” di quello Renzi. La situazione è ben più complessa e proviamo ad analizzarla.
Il primo dato è prendere consapevolezza che è stata rifiutata dalla maggioranza delle forze politiche qualsiasi ipotesi di un governo istituzionale di tregua. Basandosi su una analisi tutta da verificare, quella che vorrebbe interpretare il risultato referendario come bocciatura irreversibile del renzismo, coloro che più o meno apertamente si sono intestati quel risultato hanno ritenuto che fosse conveniente costringere la compagine renziana a continuare a logorarsi al governo. Di qui la sostanziale preclusione ad avere una soluzione che consegnasse il passato alla storia varando una compagine che apparisse e possibilmente fosse al di sopra dei conflitti politici attuali, in attesa che fossero le urne a decidere la nuova geografia politica del potere. Aggiungiamoci subito che questa soluzione non andava bene neppure al premier disarcionato malamente dal risultato referendario.
Si doveva di conseguenza varare un governo politico che avesse a sostegno una maggioranza parlamentare: impresa molto complicata quando si era in presenza del partito di maggioranza relativa dilaniato da lotte interne e perennemente sull’orlo di una crisi di nervi.
Al tempo stesso questo governo doveva apparire come una costruzione solida e non come un tappabuchi tanto per far passare il tempo necessario per tornare alle urne. leggi tutto
E adesso?
Che in democrazia il voto popolare debba sempre essere rispettato come determinante è una ovvietà. Ritenere che sia un metro infallibile per giudicare la bontà o meno di una causa è una sciocchezza smentita dalla storia: vox populi, vox Dei è un aforisma da cui guardarsi. Ma su questo la riflessione è stata più che latitante, preferendo, per spiegarsi il grande successo dei contrari alla riforma costituzionale, rincorrere le spiegazioni più banali: quelle in politichese puntate sulla “antipatia” di Renzi, e quelle sociologiche che hanno attribuito la preponderanza del sì alle zone prospere e quella del no alle zone a più forte depressione economica.
Ci permettiamo di chiamare in campo qualche altro elemento, perché, se davvero il nostro paese vuole uscire da questa prova con qualche guadagno, è opportuno che si lasci alle spalle l’orgia di anticultura che ha connotato la passata campagna politico-elettorale.
Un primo dato da tenere in conto potrebbe essere la singolare posizione di una parte della sinistra che si è buttata a magnificare il consenso popolare al rigetto della riforma marcata Renzi, sostenendo che l’attuale segretario del PD non aveva capito da che parte stava il popolo, giudicato ovviamente sano. Singolare che quando quello stesso popolo votava massicciamente per Berlusconi avesse passato il suo tempo a parlare di una opinione pubblica drogata e manipolata. leggi tutto