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18 maggio 2024
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Argomenti

Il centrodestra "plurale"

Luca Tentoni - 26.03.2016

La moltiplicazione delle candidature di centrodestra e destra a Roma rappresenta efficacemente lo stato attuale di disgregazione di un "polo" (la ex Cdl) che ha governato il Paese per circa nove anni e che ha sempre avuto percentuali di voto nazionali complessivamente superiori al 40% dei suffragi (se non prossime al 50%) fino al "terremoto elettorale" del 2013, quando la coalizione di Berlusconi perse milioni di voti ma si fermò, col suo 29,2%, ad un passo dal 29,5% del centrosinistra di Bersani, fallendo così la conquista del premio di maggioranza alla Camera dei deputati. Per anni, sia pure in presenza di due leader promotori di istanze diverse fra loro come Fini e Bossi (e dei rispettivi partiti) il centrodestra è sempre stato tenuto insieme da Berlusconi. Il Cavaliere riuscì addirittura a costruire la sua prima coalizione vincente, nel 1994, alleandosi con il Carroccio al Nord e con An nel centrosud: allora il "senatur" non voleva prendere con Fini "neppure un caffè" (salvo, poi, allearsi dopo il voto per dar vita al primo governo Berlusconi, durato pochi mesi). Il centrodestra disegnato dal Cavaliere e capace di vincere tre elezioni politiche (1994, 2001, 2008) aveva un leader incontrastato, una pluralità di forze politiche (dai neodemocristiani di Casini ai postmissini di Fini, passando per i leghisti di Bossi) ma soprattutto era incentrato su un partito egemone, Forza Italia. Gli "azzurri" avevano ciò che i loro alleati non possedevano: leggi tutto

L’Europa davanti al terrorismo islamista

Paolo Pombeni - 24.03.2016

Non è semplicemente una questione di terrorismo quanto sta succedendo, perché il terrorismo islamista ha caratteristiche peculiari. In Europa ci sono stati nei decenni passati altri tipi di terrorismo, basti citare quello basco e quello nordirlandese, per non risalire a quello verificatosi negli anni Sessanta nel Sudtirolo/Alto Adige. Si trattava però di un’altra cosa: erano vicende storiche, molto meno cruente, con un obiettivo chiaro e facilmente identificabile per quanto discutibile come giustificazione di azioni violente da guerriglia. Avevano come bersaglio uno specifico “nemico”, cioè un potere politico che veniva considerato, lasciamo stare al momento se a torto o a ragione, il responsabile di uno stato di cose che avrebbe potuto essere cambiato solo che si fosse “vinto”. Nei casi citati si trattava di rivendicazione di movimenti indipendentisti.

Certo più complesso da inquadrare il terrorismo fra anni Settanta ed anni Ottanta del secolo scorso degli estremismi di destra e di sinistra. In quel caso l’obiettivo era assai vago, il cambio di regime, lo si chiamasse o meno rivoluzione. Una meta utopica, ma almeno in astratto raggiungibile e già raggiunta in alcune circostanze in un passato non molto lontano.

L’obiettivo del terrorismo islamista è invece così globale e catastrofista da essere del tutto sfuggente. A che cosa mirano i programmatori e gli esecutori delle stragi di cui siamo testimoni? leggi tutto

Politica senza pace

Paolo Pombeni - 22.03.2016

Pochi pensavano che la politica italiana trovasse se non pace, almeno una modalità di confronto meno soggetta alle spinte estreme. Come ha detto Renzi si poteva sperare che in una fase delicatissima della situazione internazionale potesse prevalere un minimo di senso di responsabilità da parte di tutte le forze politiche. Peraltro questo avrebbe richiesto un po’ di strategia di pacificazione anche da parte del premier, pur comprendendo che lui è il soggetto meno idoneo a poter agire in quella direzione visto che si trova nella posizione del bersaglio indicato da tutti.

Il fatto è che quando si avvia una fase di ridefinizione complessiva del sistema è piuttosto difficile che la politica mostri quella freddezza razionale che sarebbe necessaria. Bisogna tenere presente che sono in discussione due parallele ridefinizioni delle due parti che hanno retto il bipolarismo imperfetto della cosiddetta seconda repubblica.

Il caso più eclatante è quello del centrodestra, ma anche quel che sta avvenendo nel centrosinistra non è da sottovalutare. Sul primo versante sotto i riflettori c’è la questione della leadership di Berlusconi. La vicenda delle amministrative romane è la punta di un iceberg, perché non c’è solo l’incapacità del vecchio leader di intercettare una strategia vincente per Roma (in fondo non l’ha mai avuta, al massimo ha lasciato la Capitale nelle mani di AN), ma assai più la ormai lunga assenza da parte sua di una strategia a livello parlamentare e nazionale. leggi tutto

Le elezioni comunali e il “voto degli esclusi”

Luca Tentoni - 19.03.2016

Mentre i partiti definiscono, fra mille difficoltà, le candidature alle elezioni comunali, c'è già chi si prepara a dare al voto nei grandi centri urbani un valore politico nazionale. Ovviamente si tratta di comparazioni rischiose, fra consultazioni di diverso genere. In primo luogo, l'affluenza alle comunali è solitamente più bassa di circa il 15-20% rispetto a quella delle politiche. Se ci riferiamo ai soli dati aggregati relativi alle sette maggiori città dove si voterà fra un paio di mesi (Torino, Milano, Bologna, Trieste, Roma, Napoli, Cagliari) abbiamo un'affluenza oscillante fra il 54,1% delle europee e il 62% delle regionali (59,6% comunali) che sale però al 74,6% alle politiche (il periodo considerato va dal 2011 al 2015). La "platea" di riferimento, insomma, sarà stavolta meno ampia che nel 2013. Inoltre, ci sono appuntamenti nei quali i partiti e le coalizioni ottengono rendimenti diversi: più il voto è politico, ad esempio, più il M5S ha possibilità di conseguire una percentuale elevata. Non si spiegherebbe diversamente il 24,3% avuto alle politiche 2013 dai Cinquestelle contro il 21,7% delle europee e il 16,4% delle regionali 2013-2015. Senza contare, inoltre, che a Roma si votò lo stesso giorno, nel 2013, per comunali e politiche, con questi risultati: M5S 12,8% comunali, 27,3% politiche. In quella occasione il centrodestra ottenne invece il 31,7% per le amministrative ma solo il 23,7% per la Camera. leggi tutto

La trasformazione della politica

Paolo Pombeni - 15.03.2016

Più che guardare ai trasformismi dei voltagabbana, che sono un fenomeno più o meno stabile della politica specie quando questa si professionalizza molto, varrebbe la pena di prendere in seria considerazione la trasformazione della sfera politica senza farsi condizionare dai guardiani delle vecchie ortodossie. Anche quello è un fenomeno stabile che si ripresenta in ogni trasformazione.

Oggi il tema sul tappeto è duplice: da un lato la difficoltà di marginalizzare la centralità del governo tornando a promuovere la centralità del parlamento; dal lato opposto la domanda di una ideologia che compatti il corpo sociale nell’analisi della transizione in corso senza buttare tutto nel canale di scarico del populismo.

Difficile non vedere oggi l’enorme trasformazione che è iniziata. Proprio oggi una collega economista ci ricordava che un analista americano ha previsto che in un lasso di tempo non ampio cesseranno di esistere il 47% dei mestieri oggi praticati. Giorni fa qualcuno ricordava in TV che tra alcuni decenni si prevede che le migrazioni fuori dall’Africa supereranno i 200 milioni di individui. Non siamo certo in grado di certificare l’attendibilità scientifica di queste previsioni (la storia è piena dell’annuncio di catastrofi che poi non si sono verificate o non almeno nelle proporzioni previste), ma rimane il fatto che c’è una fortissima attesa di cambiamenti radicali. leggi tutto

Le elezioni primarie

Luca Tentoni - 12.03.2016

È tempo di primarie. Negli USA, repubblicani e democratici stanno scegliendo i loro candidati alla Casa Bianca. In Italia, più modestamente, sono stati recentemente selezionati - in un modo tecnicamente diverso – coloro i quali rappresenteranno il centrosinistra alle “comunali” nelle maggiori città italiane. A Milano, Roma e Napoli l'ultima parola sugli aspiranti sindaci è stata detta dai partecipanti a consultazioni popolari aperte, cioè non riservate ai soli iscritti ai partiti della coalizione ma allargate alla platea dei simpatizzanti. Come sempre, torna il dibattito sull'utilità delle "primarie", sulla maggiore o minore affluenza, sulla qualità delle candidature, persino sull'opportunità politica di svolgerle (si veda il caso delle "regionali" in Liguria nel 2015). Uno degli ostacoli - a nostro avviso - nell'analisi di questa modalità di scelta delle candidature a cariche pubbliche elettive sta nell'attribuire allo strumento una connotazione positiva o negativa. Ci sono, certo, meccanismi che vanno messi a punto a seconda dei tipi di elezione ai quali si riferiscono. Anche il contesto politico-sociale è importante. Inoltre, quando c'è un eletto uscente che si ricandida, si può e forse si deve evitare (com'è successo a Torino per Fassino) di attivare il meccanismo delle "primarie". In sintesi, le primarie sono come i sistemi elettorali: uno strumento, non un fine. Non risolvono problemi se il contesto è difficile. Come scrive molto bene Luciano Fasano sull'ultimo numero del "Mulino" (1/2016) "le primarie funzionano secondo una logica garbage in/garbage out: se entra spazzatura non può che uscirne nuovamente quella". leggi tutto

Piccola e grande politica

Paolo Pombeni - 10.03.2016

Curiosa coincidenza: martedì 8 marzo è stato contemporaneamente il giorno dello scandalo delle primarie a Napoli e del bilaterale Hollande-Renzi. Cioè: un caso di piccola e miserabile politica e un caso di almeno tentata grande politica.
La documentazione di una gestione delle primarie nella città partenopea non esattamente al di sopra di ogni sospetto è un episodio brutto, reso ancor peggiore da una reazione dei vertici PD non all’altezza della situazione. Che in un contesto come quello napoletano il ricorso ad uno strumento delicato e poco strutturato come sono le primarie potesse dare luogo a pasticci tutto poteva essere tranne che un evento inaspettato. Non c’era ragione per pensare che il costume degradato che si era avuto nell’occasione precedente svanisse per effetto di magia, soprattutto quando c’era in campo una sfida molto difficile fra un personaggio con una robusta storia alle spalle e il candidato di un apparato di partito che voleva riprendersi il campo di gioco.

Ciò che in questo caso è inaccettabile è che i vertici del partito nazionale se la cavino minimizzando, timorosi di dare spazio alle opposizioni interne. Invece è proprio comportandosi così che le rafforzano e che legittimano quello scollamento con una parte del loro elettorato la cui esistenza non è una invenzione della sinistra dem (che si limita ad enfatizzarlo). Sarebbe stato molto più serio un intervento radicale dal centro con una severa inchiesta rapida e la radiazione immediata di quei membri del partito colti con le mani nella marmellata. leggi tutto

Renzi dopo le primarie

Paolo Pombeni - 08.03.2016

L’interpretazione delle primarie è una doppia cabala. Misurare tutto in rapporto al numero di partecipanti che si erano presentati nella precedente occasione non è troppo utile. Gli umori dell’opinione pubblica dipendono da molti fattori volatili e non c’è certezza che i dati precedenti rispecchiassero una realtà più “solida” di quella con cui ci si confronta oggi. Dunque su quel terreno è meglio avventurarsi con cautela.

Interpretare i risultati è altrettanto complicato, ma qualche tentativo si può fare. Almeno a livello di impressione è che in questa tornata abbia dominato la forza della residua organizzazione del PD. Per la verità lo si era già visto nelle primarie per le elezioni regionali in Emilia Romagna dove la “macchina” del partito aveva vinto col risultato poi di un flop di partecipazione alle elezioni vere, compensato dal fatto che il candidato scelto aveva comunque vinto ed al partito questo bastava. Anche in questa tornata l’impressione è che ovunque abbiano vinto i candidati sostenuti dall’apparato dominante, da Milano fino ai centri minori. Se ne deduce che la struttura del PD è ormai fortemente “renziana” (magari con qualche correntina interna al raggruppamento) e che la vecchia guardia non risale la china.

Ciò sembra particolarmente evidente a Roma, nonostante le grandi traversie del PD in quella città. Il candidato della minoranza dem non è andato oltre un risultato discreto, persino meno bene di come era andata a Milano. leggi tutto

L’ampliamento della “base democratica”

Luca Tentoni - 05.03.2016

A pochi mesi dalle elezioni amministrative e forse a un anno (o poco più) dalle politiche, è opportuno interrogarsi sulle cause e sulla natura di un astensionismo che sicuramente sarà vasto e forse addirittura maggioritario (almeno alle "comunali"). Va premesso che l'astensione non è da considerarsi automaticamente come un rifiuto della democrazia e degli istituti rappresentativi. Come si è spesso spiegato, l'area del non voto è estremamente composita: oltre a comprendere chi non va mai alle urne per impossibilità di vario genere o per indifferenza, c'è anche chi non ci va perchè non crede nella democrazia, ma anche chi vuole esprimere così la sua protesta e, infine, chi non trova nell'offerta politica e partitica ciò che più gli somiglia o gli aggrada. Un 40-50% di astensionismo (che può peraltro ridursi a un 30-35% alle politiche) non equivale assolutamente alla "secessione" del corpo elettorale e allo strappo del tessuto democratico del Paese. Però qualche riflessione su come recuperare la partecipazione (fermo restando che una buona metà del "partito del non voto" non sarà mai riportata alle urne, proprio perchè la quota di astensionismo fisiologico e di protesta irreversibile è praticamente impossibile da riassorbire) bisognerebbe farla. Si tratta, in altre parole, di riscoprire e riadattare ciò che un tempo si definiva “allargamento della base democratica”, intendendo non solo lo specifico tema della partecipazione elettorale, ma – più in generale – considerando anche la necessità di una “recupero” del rapporto fra cittadini e istituzioni. leggi tutto

Lo scoglio libico

Paolo Pombeni - 03.03.2016

E’ bene non sottovalutare l’impatto che a questione libica potrebbe avere sulla navigazione del governo Renzi. Rischia di diventare uno scoglio piuttosto difficile da evitare, comunque la si inquadri.

Innanzitutto sta già facendo riemergere un pacifismo puramente ideologico che da qualche anno era entrato in sonno. Naturalmente torna il solito argomento fasullo della presunta violazione dell’articolo 11 della Costituzione che, secondo queste valutazione vieterebbe qualsiasi guerra che non fosse puramente difensiva contro un aggressione esterna. Non è così, perché il “ripudio della guerra” la riguarda “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” e non è facile immaginare che opporsi all’avanzata dell’Isis offenda la libertà di qualche popolo, né che un tentativo di pacificare la Libia possa essere inquadrato come risoluzione di una controversia internazionale.

Il fatto è che la nostra Carta parlava di “guerra” nei termini in cui la si poteva concepire nel 1946-48 ed è curioso che quelli che ritengono che la definizione che essa dà della “famiglia” vada storicizzata a quel momento non ritengano necessario fare altrettanto per la nozione relativa alla guerra.

Ovviamente altra cosa è discutere se un intervento militare nel caos libico sia in grado di raggiungere i risultati di pacificazione del territorio a cui mira. leggi tutto