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Il "doppio binario" della prossima campagna elettorale

Luca Tentoni - 02.12.2017
Renzi e Berlusconi

Sebbene preveda una competizione "all'inglese" per assegnare il 36,8% dei seggi in altrettanti collegi uninominali, la nuova legge elettorale (165/2017) ha un impianto quasi puramente proporzionale, attenuato in minima parte dalla soglia di sbarramento al 3% e dal premio eventuale e di incerta misura che si può conseguire aggiudicandosi una quota di seggi "maggioritari" superiore alla propria percentuale di voti (e seggi proporzionali) nazionali. Vincere in 116 dei 232 collegi in palio (il 50%), per esempio, avendo il 35% dei voti, può voler dire salire da un numero teorico di seggi di 220 (il 35% del totale complessivo, eletti "esteri" inclusi) a 255 (40,5% dell'intera Assemblea di Montecitorio, nel nostro esempio). Non un grandissimo premio, a guardar bene, ma è verosimile che nel prossimo Parlamento persino una manciata di seggi in più possa favorire la creazione (o impedire la formazione) di una coalizione di governo. Ciò non vuol dire affatto, tuttavia, che assisteremo ad una campagna elettorale giocata solo a livello locale, nei 232 collegi per la Camera e nei 116 per il Senato. Quella uninominale sarà però una delle due "gare" del prossimo marzo, insieme a quella (nazionale) per la quota proporzionale (e per il raggiungimento della soglia del 3%, per i partiti minori). In pratica, si è passati da un sistema (1994-2001) nel quale i collegi erano il teatro della competizione (dove si assegnava il 75% dei posti), ad uno (2006-2013) in cui le liste bloccate e la  battaglia nazionale (alla Camera) per il premio di maggioranza spostavano tutta l'attenzione verso i leader (i candidati nelle circoscrizioni, infatti, potevano decidere, valutando la propria posizione in lista, se fare campagna elettorale o meno, sapendo che il loro contributo sarebbe stato comunque - quasi sempre - marginale). Ora abbiamo un voto per due competizioni (non c'è lo scorporo, non c'è la seconda scheda della Camera 1994-2001): chi sceglie il partito, sceglie il candidato nel collegio ad esso collegato (o apparentato alla coalizione di liste); chi vota per il candidato, assegna un voto anche ai soggetti politici che lo sostengono. Sul piano della comunicazione politica e della gestione della campagna elettorale, le cose cambiano rispetto al 2013. Avremo eletti "uninominali" (con un seguito forse anche personale, ed espressione di una coalizione e di una comunità locale ben definita) ed eletti "proporzionali" (di lista, legati al partito, più o meno come col "Porcellum"). Teoricamente, i primi dovrebbero essere scelti fra i candidati più competitivi, in grado di apportare quel valore aggiunto che in alcuni collegi (ce ne sono molti dove si può vincere o perdere per un pugno di voti) potrebbe essere decisivo. Gli altri, invece, potranno al più supportare i candidati dei collegi collegati alla propria lista, ma saranno eletti in listini bloccati e in base ad una scelta "partitica" dell'elettore (il quale, barrando il simbolo del loro soggetto politico anziché uno di quelli degli alleati, determinerà gli equilibri nazionali all'interno della coalizione). Sul piano politico e "psicologico" ciò potrebbe avere un impatto, qualora coalizioni costituite prima del voto si disunissero subito dopo (una questione che può riguardare in primo luogo un centrodestra composto da due "anime" ben distinte): i parlamentari "maggioritari" (o di collegio) si troverebbero a dover scegliere da quale parte stare, fra le due separate; gli eletti "proporzionali" (o di lista) sarebbero invece già "a casa propria", seguendo le scelte e la sorte del partito per il quale sono stati eletti. Se è vero che, in assenza di vincolo di mandato, questo discorso non dovrebbe in teoria avere senso, nella realtà politico-mediatica le cose stanno invece diversamente, soprattutto perché l'opinione pubblica sembra sempre più insofferente verso i "cambi di campo". Gli eletti nei collegi, con una casacca multicolore (di coalizione) sarebbero i più esposti, perché approdati in Parlamento grazie ai voti di tutte le componenti dell'alleanza. Sarà interessante capire, inoltre, se i leader dei partiti si comporteranno dopo il voto facendo prevalere la "logica del 63%" (cioè il peso delle liste e dei rapporti di forza nel proporzionale) su quella coalizionale e maggioritaria dei collegi: non è questione da poco. Ma torniamo al doppio binario della competizione elettorale. Ogni soggetto politico sa che, nell'era del marketing e dei "partiti del leader", molti consensi sono conquistati a livello nazionale, in televisione e nelle "sfide" sui vari mezzi di comunicazione (social media inclusi). Però, il fatto che esista e si sviluppi una seconda campagna elettorale locale basata sui collegi e sulla persona del candidato all'uninominale, può in certo modo ampliare il "traino" (o la "zavorra") nazionale o controbilanciarne gli effetti. Poiché chi si presenterà nei collegi, tranne poche eccezioni di leader nazionali, "giocherà per vincere" ed essere eletto (salvo il caso che si candidi anche nei listini-paracadute proporzionali) l'impegno locale sarà massimo, riproponendo una competizione accesa - com'è appunto quella uninominale - che non si vedeva dal 2001 (e che, dunque, per molti giovani fra i 18 e i 34 anni è del tutto inedita). Fra il 2006 e il 2013 la ricetta per vincere era molto semplice: mettere a punto un'ottima campagna nazionale e far arrivare sul territorio l'"onda lunga" del successo del leader del partito (e di quello della coalizione, se diverso da quello del proprio soggetto politico). Oggi non è più così: non solo perché nella coalizione che fa capo al Pd il capofila è ovviamente Renzi e perché nel centrodestra una primazia vera fra Salvini e Berlusconi non può essere predefinita (dati i rapporti di forza, pressoché pari, fra Lega e FI), ma perché (a parte l'inutilità della figura del "capo politico": una definizione che sarebbe stato meglio abolire) la lotta uninominale ha una componente personale e locale dalla quale non si può sfuggire. È vero: ci sono (sempre meno, molto meno che nel 1994-2001) collegi come il vecchio Mugello (dove fu eletto Di Pietro con il centrosinistra), ma al Sud sono quasi tutti in bilico. Nell'incertezza, prevarrà chi è in grado di "andare oltre" il consenso locale del suo partito o coalizione. Non basta presentare un candidato capace di non perdere i voti di tutti i potenziali elettori "di area", ma ci vuole qualcuno che vi aggiunga un peso e una credibilità personale, perché - come si diceva all'inizio - il piccolo "premio" (o la penalizzazione) derivante dal risultato nei collegi, può favorire la nascita di un governo e di una maggioranza parlamentare anziché di un'altra (o di nessuna combinazione possibile: ipotesi non da escludere). Senza contare che ci sono, nei partiti grandi e piccoli (anche in quelli che non hanno tante possibilità di aggiudicarsi seggi uninominali) dei candidati in grado di raccogliere moltissimi voti in più di quelli che potenzialmente andrebbero alla lista o alle liste collegate: ciò potrebbe cambiare l'esito della competizione nel collegio, a vantaggio del diretto interessato, o solo a svantaggio del candidato del partito-coalizione teoricamente più forte sul piano dei voti potenziali di lista. Per esempio: un centrista del Pd "pontiere" verso FI potrebbe "rubare" voti moderati, nel collegio, al centrodestra che presenta un leghista; lo stesso potrebbe accadere ad una personalità ex Pd contro un concorrente del suo vecchio partito, ma meno noto e meno forte localmente; il discorso vale anche per gli aspiranti eletti "maggioritari" del M5S, che si dovranno misurare con rappresentanti - più o meno competitivi - degli altri raggruppamenti. La "gara" nei collegi, dunque, che in presenza di un forte divario nazionale fra un polo e un altro avrebbe effetti limitati sul margine parlamentare (comunque ampio) di maggioranza del vincitore, stavolta conta parecchio, proprio perché, come abbiamo spiegato, pochi seggi possono pesare moltissimo. Dunque, si aggiudicherà la competizione (o - più realisticamente - avrà la maggioranza relativa dei seggi) chi saprà combinare meglio la campagna nazionale (massmediatica) con quella nei collegi (più simile a quella per i sindaci dei grandi comuni, per intenderci). Va poi aggiunto che in alcuni casi, in Senato, la componente uninominale sarà molto meno rilevante che altrove (in Basilicata solo un eletto contro sei "proporzionali") e in altri molto di più (in Calabria, 4 uninominali contro 6 proporzionali; in Puglia, 8 contro 12; in Trentino-Alto Adige, 6 contro 1; in Molise, uno maggioritario e uno proporzionale, che alla Camera diventano addirittura due a uno): ciò significa che in alcuni territori il tipo di competizione "prevalente" sarà quella basata sui collegi, facendo passare in secondo piano quella nazionale. Per gli strateghi delle campagne elettorali, insomma, questa prova appare molto più impegnativa di quella delle politiche 2013.