La "retrotopia", il pericolo del nostro tempo
Il passaggio dall'età delle garanzie (i "Trenta gloriosi": 1945-1975) a quella della globalizzazione ha prodotto conseguenze sociali e politiche che la crisi economica dell'ultimo decennio ha accentuato. In molti sondaggi condotti nei più grandi paesi occidentali si nota una costante percezione, da parte dell'opinione pubblica, che non solo il tenore di vita, ma in generale il mondo che si lascerà alle prossime generazioni saranno caratterizzati da una maggiore insicurezza, da una più elevata disuguaglianza economica fra i ceti e da un impoverimento della classe media e di quella già ora meno abbiente. La risposta "emotiva", diciamo così, è un rovesciamento di prospettiva: se non si riesce a credere ad un futuro di "magnifiche sorti e progressive" e non si accetta il presente, si prova a puntare sul passato. Un passato idealizzato, una sorta di Arcadia nella quale anche gli aspetti più negativi sono oggi visti in modo meno doloroso, quasi sfumato. Questa chiusura si riverbera nel desiderio - che sembra guadagnare terreno nell'opinione pubblica - di un ritorno ai vecchi stati nazionali, all'elogio dell'unità che presuppone il rifiuto della diversità. Secondo Zygmunt Bauman (nel libro scritto poco prima di morire: "Retrotopia", Laterza 2017) stiamo sperimentando una nuova stagione di "nostalgia": citando Svetlana Boym, l'autore ricorda che nel Seicento "la nostalgia era considerata una malattia dalla quale si poteva guarire, ma nel ventunesimo secolo quella lieve indisposizione si è trasformata in una condizione insanabile. Il ventesimo secolo, iniziato con un'utopia futurista, si è chiuso con la nostalgia, come promessa di ricostruire una casa ideale, con cui molte delle ideologie oggi influenti ci invogliano ad abbandonare il pensiero critico per i legami emotivi". Ma, avverte Boym, "il pericolo della nostalgia è che tende a confondere la casa vera con quella immaginaria" e sconfina nella versione "restauratrice" che caratterizza "i risvegli nazionali e nazionalistici in corso in tutto il mondo, dediti alla mitizzazione della storia in chiave anti-moderna attraverso il recupero di simboli e miti nazionali e, talvolta, il baratto di teorie cospiratorie" le quali si diffondono ormai agevolmente sui social media. Secondo Bauman, i media elettronici "agevolano, dunque promuovono, un atteggiamento culturale onnivoro, ma al tempo stesso una severa ma capricciosa selettività nella raccolta d'informazioni, nella costruzione di reti e della comunicazione". La ricerca di una comunità di simili è dunque resa più facile dai social network (e dall'offerta politica, aggiungiamo), favorendo quel processo di "retrotopia", cioè di scambio fra il passato e il futuro, in una prospettiva che sta nel tornare indietro per riuscire ad andare avanti. La difficoltà, per l'uomo contemporaneo, di gestire la rivoluzione della globalizzazione e la contemporanea debolezza della politica (con la crisi delle ideologie classiche) è una delle cause, come dice Javier Solana citato da Bauman, del "pericoloso caso di nostalgia" del quale soffre l'Unione europea: "non è solo il rimpianto ad alimentare l'ascesa di partiti nazionalisti; i leader europei continuano a cercare di applicare soluzioni di ieri ai problemi di oggi". Si può criticare la gestione della crisi da parte dell'UE, dice Solana, ma non addossarle la colpa degli squilibri economici globali intervenuti dal 2008, che riflettono un fenomeno molto più ampio: la globalizzazione. Così, c'è chi ha reagito tornando al protezionismo e chi "ricordando con nostalgia uno Stato nazionale che in realtà non è mai esistito" e aggrappandosi alla sovranità nazionale per rifiutare l'ulteriore integrazione europea. La "retrotopia", afferma Bauman, è "spronata dalla speranza di riconciliare finalmente la sicurezza con la libertà: impresa mai tentata - e, in ogni caso, mai realizzata". L'operazione di sostituire un futuro che spaventa con un passato tanto rassicurante quanto artefatto è compiuta cercando di espungere tutto ciò che è estraneo, per rinchiudersi in un "vicinato" che si rifaccia ad un passato "com'era, ma ancor più come potrebbe essere immaginato, inequivocabilmente nostro, infinitamente gestibile, che promette" - spiega Bauman - "di offrire una possibilità per arrivare a quella beata onnipotenza che da tempo si è persa, forse irreparabilmente, per il presente e per l'avvenire". In teoria, aggiunge, "il futuro è la sfera della libertà, mentre il passato è la sfera dell'inesorabilità immutabile e inalterabile; il futuro in linea di principio è duttile, il passato è solido. Nella pratica della politica della memoria, invece, il futuro e il passato è come se si fossero scambiati i rispettivi punti di vista". Del resto, il passato è "un luogo estremamente comodo e molto seducente, per costruire zone di comfort". Ritorno al passato e rifiuto del nuovo e del diverso sono i presupposti per desiderare una comunità chiusa, una "tribù". Come scriveva Michel Walzer, "se gli Stati diventassero dei grossi vicinati, è probabile che i vicinati diventerebbero dei piccoli Stati e che i loro membri si organizzerebbero per difendere la politica locale e la loro cultura dagli estranei". Il percorso, dunque, prevede la creazione di una netta distinzione fra un "noi" e un "loro". Secondo Bauman, la globalizzazione "che porta alla separazione e al divorzio fra potere e politica, sta trasformando davvero gli Stati in qualcosa di molto simile ad estesi vicinati, relegati entro confini vaghi, porosi e protetti da fortificazioni inefficaci". Una volta fissata una differenza, tracciato un confine non solo fisico ma culturale, "il precetto di divisione/separazione senza compromessi appare non solo evidente, ma anche perentorio: non c'è più posto per l'altra logica. In simili situazioni nessuno ascolta nessuno, perché non si vuole davvero sapere cosa dice l'altra parte. Le informazioni a conferma delle proprie convinzioni vengono elaborate, in quanto emotivamente significative, mentre tutto il resto viene gettato via". Di qui il successo di teorie del complotto; Bauman ricorda le parole pronunciate da Umberto Eco nella lezione inaugurale dell'anno accademico 1994-'95 all'Università di Bologna: "il falso è stato motore di molti eventi della storia (...) ciascuno di quei racconti aveva un pregio: appariva narrativamente verosimile, più della realtà quotidiana o storica - che è ben più complessa ed incredibile - sembrava spiegar bene qualche cosa che altrimenti era difficile comprendere". Un mondo sempre più compartimentato, chiuso, diviso in piccole realtà contrapposte ed autoreferenziali, è ciò che un'errata risposta alle sfide dei nostri tempi vorrebbe imporre. È questa, oggi, la principale sfida politica: dimostrare che un futuro migliore è possibile e preferibile ad una restaurazione impossibile da realizzare, se non nella forma di una tragica riproposizione di altri "tentativi di chiusura" che hanno finito per funestare il XX secolo.
di Luca Tentoni
di Gianluca Pastori *