Parole povere. Il linguaggio della Seconda Repubblica
Le elezioni che si avvicinano saranno vinte più imponendo le priorità e la "narrazione" che ingaggiando battaglie di idee. È così, ormai, da lungo tempo, non solo (ma soprattutto) dall'inizio della Seconda Repubblica. L'elettorato è cambiato, ha mutato - in media, al ribasso - gusti e sensibilità, però il prodotto che la politica gli ha offerto è diventato, col passare degli anni, sempre più scadente. Una sorta di junk food, che in un bel libro uscito per Laterza pochi mesi fa ("Volgare eloquenza") Giuseppe Antonelli definisce icasticamente così: "in principio c'era il politichese, fatto di parole latine e oscuri riferimenti colti; oggi c'è il politicoso: un linguaggio che sta alla politica come il petaloso sta ai fiori". Come spiega l'autore, con l'ausilio della televisione, dei nuovi media e soprattutto di tecniche di marketing, si è scelto di raggiungere un elettorato sempre più distante dalla politica facendo ricorso alla "retorica dell'abbassamento". L'eloquenza di molti politici, afferma, "può essere definita volgare proprio a partire dall'uso distorto che fa della parola e del concetto di popolo (vulgus)", così, "nel momento stesso in cui si mitizza il popolo sovrano, lo si tratta in realtà come un popolo bue: qualcuno a cui rivolgersi con frasi ed espressioni terra terra, cercando di risvegliarne bisogni e istinti primari". Si è passati dal periodo in cui i leader cercavano di usare un linguaggio aulico (e un po' criptico, per scambiarsi messaggi fra loro mentre si rivolgevano alle masse) che cercava di impressionare l'auditorio facendo pesare la propria superiorità culturale, ad un approccio che predilige "forme espressive elementari che hanno la funzione di simulare schiettezza, sincerità, onestà". Dal "votami perché parlo meglio (dunque ne so più) di te" si è passati al "votami perché parlo (male) come te". È il paradigma del rispecchiamento, che Eco aveva già individuato quando si occupò di Mike Bongiorno nella "Fenomenologia" che dedicò al presentatore, spiegandone il successo col fatto che lo spettatore medio si trovava a suo agio di fronte ad una persona che appariva più o meno del suo stesso (non eccelso) livello culturale. Secondo l'autore (e secondo noi) forse ha ragione Walter Siti quando afferma: "Pasolini aveva previsto che la borgata si sarebbe imborghesita, io credo che la borghesia si sia imborgatata" cioè "culturalmente sottoproletarizzata; la televisione ha imposto un modello in cui la cultura è apertamente considerata un disvalore e studiare (o anche solo leggere) è considerato una cosa da perdenti". Nel momento, insomma, in cui la politica perde la fiducia dell'elettorato, si cercano nuovi modi per comunicare, ma invece di tentare di elevare il fruitore del messaggio, ci si abbassa al suo livello, assecondando la convinzione che è preferibile il politico che gli somiglia. Contemporaneamente, sempre nel periodo fra la fine della Prima Repubblica e l'inizio della Seconda, si affermano nuove tecniche di marketing elettorale, fra le quali quella dello storytelling (un'espressione che in Italia è approdata nel 1971, in un numero della rivista "Studi americani", nel quale si prefigurava quanto sarebbe accaduto anche da noi), cioè di una narrazione che è affabulazione: "la narrazione" spiega Antonelli, "implica la sospensione del giudizio a favore di quello che si chiama patto narrativo", quindi "non si discute: si accetta o si rifiuta in blocco, si odia o si ama; il giudizio è sospeso, quindi vale solo il pregiudizio". C'è poco da stupirsi, aggiunge l'autore, se l'esito "è il fronteggiarsi di faziosi schieramenti di seguaci". Del resto, "il discorso che ti sto raccontando parla di te e, per dimostrartelo, uso le parole che useresti tu, mio caro elettore: banali, alla moda, parolacce, strafalcioni. Ti ci rivedi? Ti fa sentire importante tutto questo? De te fabula narratur. Tu credici e votami, o almeno mettimi subito un mi piace". Ciò non vuol dire che la nuova retorica sia moralmente peggiore della vecchia: i giudizi di valore non servono nell'analisi dei fenomeni sociali e politici. Semplicemente, la nuova retorica è "meno clamorosa, ma più agguerrita, perché forte delle tecniche di persuasione sperimentate dalla pubblicità". Non dobbiamo dunque avere nostalgia del passato, ma il problema - spiega Antonelli - è un altro: "cosa si è fatto in questi anni per risolvere l'incomunicabilità tra lingua della politica e lingua comune? Niente. O meglio: non si è lavorato per innalzare la competenza linguistica (lessicale, testuale) dell'italiano medio, ma si è provveduto ad abbassare il livello di tutto il resto (politica, televisione, giornali)". Perciò, nulla importa "che un terzo degli italiani, stando alle indagini OCSE, non è capace di capire cosa c'è scritto in un articolo di giornale [però] è evidente che, oggi più che mai, chi non possiede strumenti linguistici adeguati rimane un individuo a cittadinanza limitata" (e spesso felice di esserlo, aggiungiamo noi, tanto quanto ne sono lieti i politici che conoscono questo lato debole del loro "pubblico" e ne approfittano). Questo passaggio da un linguaggio aulico ad uno che non è semplice, ma semplicistico, grossolano e talvolta anche triviale, ha aumentato l'aggressività (che nell'era post-ideologica, in teoria, avrebbe dovuto conoscere un affievolimento, dopo il secolo delle grandi contrapposizioni). Questo passaggio è stato accelerato, spiega Antonelli, "dallo spostamento del dibattito politico prima nell'ambito della chiacchiera televisiva (i talk show), poi di quella telematica (i blog, i social network, le chat)" accompagnando la transizione dall'argomentazione alla narrazione ("proliferazione di parole che cerca di colmare il difetto di presa sul reale": Christian Salmon, "La politica nell'era dello storytelling", ed. Fazi, 2014). Così, siamo finiti in quella che "già negli anni Settanta Paul Virilio” [Vitesse et politique, Galilée, Paris, 1977] “ha chiamato dromocrazia (dal greco dromos, corsa, gara); informazione e politica sono soggette oggi allo stesso dispotismo, quello del tempo reale e dei media simultanei": un sistema che costruisce e brucia in fretta slogan e modi di dire, una sorta di consumismo linguistico il quale ha bisogno di essere continuamente alimentato per produrre titoli, tweet, immagini senza tener conto necessariamente del contenuto (che talvolta non c'è neppure). In un volume di Stefania Spina ("Openpolitica", ed. Franco Angeli, 2012) si nota che la politica ha sposato la nuova retorica facendo un percorso articolato in due tappe: prima, in televisione, con quella che Antonelli chiama "la rimozione dell'oscurità lessicale", che porta il lessico dei politici ad essere formato per oltre l'80% da parole del linguaggio "base"; poi, sui social media, si attua (in particolare su Twitter) la "drastica semplificazione della sintassi", con pochissime subordinate, per ottenere "una serialità e una frammentarietà che mal si prestano a una vera argomentazione". Se prima si usava il "latinorum" (che ora è riproposto in versione maccheronica per le leggi elettorali) e molto sfuggiva alla comprensione dell'uomo comune, oggi è la finzione mascherata da chiarezza che svia l'elettore. Un "linguaggio elementare, che al logos preferisce i loghi", fatto di emologismi che giocano "su parole simbolo o - per meglio dire - parole icona e in certi casi piegano a nuovo significato vocaboli da sempre presenti nel discorso politico" come ad esempio "libertà" e "miracolo". La semplicità diventa così la miglior maschera per la fabula della narrazione ed è composta da frammentazione sintattica, semplificazione lessicale, insistenza su alcune parole. È ciò che George Lakoff ha spiegato osservando che spesso le elezioni si vincono se si riesce ad imporre le proprie parole d'ordine al di là di ogni argomentazione, come per esempio ha fatto Trump, il cui modo di esprimersi, dice Antonelli, "è fatto di frasi molto brevi, spesso lasciate a metà, quasi sempre composte di parole mono o bisillabiche; secondo le analisi dei linguisti, sintassi e vocabolario sono quelli di un bambino dell'ultimo anno delle elementari" (ci ricorda qualcosa o qualcuno, in Italia?). Il problema di questo approccio retorico non è di ordine morale, ma delle ricadute pratiche che può avere sulle democrazie: "come la pubblicità, anche la politica alimenta, attraverso il linguaggio, il narcisismo dei destinatari, i quali preferiscono riflettersi che riflettere; ciò toglie al discorso politico forza propulsiva e dinamismo. Non è una risposta ai bisogni degli italiani, ma pura ecolalia: ripetizione ridondante. Per funzionare", afferma Antonelli, "la narrazione non deve essere mai disgiunta dalla visione del futuro del Paese. Perché non spostare la nozione di chiarezza dalla forma al contenuto, rendendo la linearità espressiva una conseguenza della chiarezza di idee? L'elaborazione di un nuovo linguaggio è impossibile senza l'elaborazione di un progetto politico innovativo". Perché ciò accada, tuttavia, bisogna occuparsi in primo luogo del contenuto e solo dopo rendere attraente la forma espressiva: "la pro-politica è sempre propositiva; prima di raccontare, bisogna fare i conti con i fatti, smettendola di usare parole senza le cose", conclude l'autore. A cinque mesi dalle elezioni possiamo vedere già all'opera le macchine narrative, ma non si scorgono ancora i contenuti, in una battaglia che sembra giocarsi più sul posizionamento e sulla rincorsa a strumentalizzare temi e problemi (anche a costo di far precipitare le istituzioni nel discredito, pur di raccattare un pugno di voti) che su un confronto fra visioni precise, reali e realizzabili del futuro. È una questione che riguarda tutte le democrazie contemporanee, ma che può produrre effetti gravi soprattutto sulla nostra, che è la prossima ad affrontare la prova delle urne.
di Luca Tentoni
di Michele Iscra *