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Il test delle elezioni amministrative

Paolo Pombeni - 14.03.2015
Silvio Berlusconi

Senza farsi abbagliare dagli opposti estremismi a commento della sentenza della Cassazione su Berlusconi, conviene spendere qualche riflessione sulla tornata delle prossime elezioni amministrative. Scriviamo amministrative e non semplicemente regionali, perché c’è anche qualche elezione a livello di comuni e anche di questo andrebbe tenuto conto.

Certo il focus principale è sulla prova delle regionali perché avranno più visibilità e serviranno di più a misurare il livello che ha raggiunto il cambiamento di quadro politico che è indubbiamente in corso a livello nazionale.

La prima osservazione da fare è che, a differenza di quanto avvenuto in altre occasioni di cambiamento degli equilibri politici del nostro sistema, in questo caso il cambiamento a livello nazionale ha preceduto quello a livello periferico. Ai tempi del centrosinistra e poi a quelli della cosiddetta emergenza dell’arco costituzionale (cioè in pratica la legittimazione del PCI come forza di governo) i cambiamenti erano stati registrati prima nelle elezioni amministrative e poi in quelle nazionali.

Oggi ci si chiede se il cambiamento che si è registrato nella distribuzione dei pesi politici a livello parlamentare (ancor più che a livello elettorale, perché le ultime elezioni non rispecchiano quanto avvenuto dopo) sia radicato o meno a livello territoriale. Da questo punto di vista infatti il passaggio elettorale delle europee, per il sistema di voto assolutamente peculiare che le governa e per la loro scarsa rilevanza sul piano del sentimento “politico” dei cittadini, non è particolarmente significativo.

Prudentemente, come si è notato, solo la Lega ne sta facendo un test conclamato a conferma del suo nuovo peso politico. Né Renzi, né Grillo per il momento parlano dell’appuntamento come di un qualcosa destinato a confermare o a negare i loro destini futuri.

Berlusconi non può evitare di ammettere che invece per FI il passaggio sarà delicato e rivelatore, ma si illude che la riconquista della possibilità di stare direttamente in campo possa fare la differenza. Probabilmente conta sul fatto che il suo partito è messo talmente male che anche solo una tenuta sul livello dei sondaggi attuali potrebbe essere presentata come l’inizio di una riscossa.

Pochi riflettono sul fatto che la tensione dell’opinione pubblica verso questo appuntamento è fortemente in calo. Oggi non c’è più né l’entusiasmo per presunte prospettive federaliste, né la consapevolezza che comunque le regioni governano poteri cospicui. I loro governi sono seppelliti dal discredito verso classi politiche locali che si sono dimostrate in gran parte voraci e poco affidabili. La fiducia nella efficienza del sistema di poteri decentrato rispetto a quello nazionale è piuttosto bassa, basti pensare ai vari scandali nel settore della sanità, che assorbe gran parte del bilancio delle regioni .

In queste condizioni la prima domanda che ci si pone non è per chi voteranno gli elettori, ma quanti di loro andranno alle urne. Il precedente disastroso delle elezioni in Emilia Romagna lo scorso autunno dovrebbe pendere come un incubo sulla testa della nostra classe politica. Infatti una scarsa partecipazione al voto aumenta il rischio della casualità nei risultati, che dipendono non da chi è in grado di raccogliere maggior consenso, ma da chi è in grado di perderne meno nella fuga dalle urne. Il rischio è che a decidere sia la consistenza dei pasdaran dei diversi schieramenti, piuttosto che la scelta dei cittadini verso chi merita più fiducia.

A fianco di questo problema sta poi quello della frattura fra il ricambio che si è avuto a livello nazionale e quello che tutto sommato non si è avuto a livello locale. Il fenomeno è macroscopico nel PD dove a livello periferico c’è ben poco che assomigli a quanto Renzi è riuscito a realizzare al vertice. Sebbene in tutt’altro contesto lo steso si può dire per Forza Italia, incapace di mettere in campo una nuova classe dirigente che sostituisca quella usurata da vent’anni di corresponsabilità col vecchio leader. L’operazione per lanciare Toti non si è dimostrata capace di un risultato apprezzabile.

Naturalmente alle regionali si misurerà la possibilità di sciogliere (forse) il doppio enigma della nuova Lega e del cambio di passo dei grillini. Salvini si gioca il suo ruolo di traghettatore del partito a livello nazionale sia nel caso dello scontro in Veneto, dove però la debolezza dell’alternativa PD non è al momento in grado di contribuire alla spallata (e quanto valga il dissenso di Tosi è tutto da misurare), sia soprattutto al Sud e in Toscana, perché è in quei contesti che si vedrà se è in grado di riproporre l’exploit dell’Emilia Romagna.

Quanto al M5S si sarà notato il nuovo impegno ad essere presenti nei talk show e ad insistere sulla percorribilità delle loro proposte di riforma, disponibili anche, pur con qualche ambiguità, ad un certo dialogo con l’area di governo. Evidentemente si è colto che si vuole mantenere e magari allargare il consenso bisogna dar prova di essere attori effettivi ed efficaci sulla scena politica anche a livello parlamentare. Dunque è con le prossime regionali che la bontà di questa trasformazione verrà messa alla prova.

Insomma la politica italiana continua a muoversi ed a cercare una sistemazione dei nuovi equilibri. Avviene per successive scosse di assestamento, una specie di sciame sismico politico. Non stupisce sia così, ma si vorrebbe sapere quanto durerà.