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No, non è la BBC …

Paolo Pombeni - 31.03.2015
Rai & BBC

Ricordate lo stacchetto-tormentone di Alto Gradimento? Quello: “No, non è la BBC, questa è la RAI, la Rai-tibbù …”?   E’ quel che ci è tornato in mente quando si è ripreso a discutere (moderatamente e con poco entusiasmo) sulla ennesima proposta governativa di riforma del nostro sistema pubblico radiotelevisivo. Perché, naturalmente, ogni volta si tocca quel tasto qualcuno torna a proporre il modello del sistema pubblico inglese che passa per l’archetipo di un universo in cui produzione di informazione e cultura da un lato e politica dall’altro sono rigorosamente tenute in compartimenti stagni.

Lasciamo perdere quanto mito ci sia in questa immagine, perché anche lì ogni tanto qualche scivolone c’è stato (ricordiamo solo le polemiche sul rapporto col governo Blair in merito alla guerra in Iraq nel 2003), ma certamente il modello è assai virtuoso rispetto a molte vicende della nostra TV pubblica. Ciò che ci si dovrebbe chiedere, e che non si fa, è quanto ciò dipenda dal modello e quanto dall’etica pubblica e dalla cultura condivisa di quel paese.

L’attuale dibattito italiano è piuttosto surreale. Per esempio quando si discute se sia meglio che il potere di nomina del consiglio di amministrazione sia in capo al governo o al parlamento e ci si accapiglia su quale delle due opzioni sia migliore per tenere la “politica” fuori dalla RAI, viene da chiedersi: perché uno dei due organi è meno politico dell’altro? In teoria un governo si regge su una maggioranza parlamentare di cui è espressione e dunque che le decisioni vengano prese in una sede o nell’altra potrebbe fare scarsa differenza se il sistema funzionasse. Se invece si pensa che il parlamento sia un luogo in cui si lavora per fare le scarpe al governo anche da parte della maggioranza che lo sostiene, c’è da sospettare che il sistema non funzioni proprio come dovrebbe.

Spendiamo ancora una parola sul tema del garantire rappresentanza a minoranze ed opposizioni. Se è così, bisogna rassegnarsi che allora il “governo” della Rai è un organo “politico”, perché altrimenti non avrebbe senso ragionare in questa logica.

Ci paiono tutti ragionamenti banali e ci stupiamo che non vengano presi in considerazione. Ma andiamo avanti, perché è adesso che viene il bello. Infatti ogni discorso che punta a svincolare l’ente pubblico della radiodiffusione finisce a porre la questione del mettere la faccenda nelle mani di rappresentanti della società civile anziché di quella politica.

Qui sta veramente il nodo della questione rispetto al mitico rinvio al modello inglese. In Italia questa divisione è difficilmente individuabile. Il nostro sistema registra da sempre un intreccio difficilmente estricabile fra classe dirigente politica e classe dirigente “civile”. Questo si è particolarmente complicato nella prima lunga fase della nostra storia repubblicana, quando la coincidenza della legittimazione politica con l’accesso al potere parlamentare di tutte le grandi sub-culture nazionali rappresentate dai partiti ha fatto coincidere il “pluralismo” con una distribuzione “federativa” dell’occupazione degli spazi pubblici (la “lottizzazione” è stata il versante perverso di questa esperienza).

Siamo purtroppo un paese che manca sempre più di una “cultura nazionale”, di un’etica pubblica largamente condivisa, di un sistema di punti di riferimento in cui tutti si riconoscono. Non dico che siamo il paese dei Montecchi e dei Capuleti, ma non ci manca moltissimo.

E’ qui che sta la ragione della difficoltà estrema di governare un servizio pubblico che abbia il compito di produrre cultura e informazione, perché il tratto unificante dovrebbe poter contare sul fatto che esistono una cultura ed una informazione che sono un “servizio generale” e che parlano al di sopra delle parti.

La TV delle origini, quella cosiddetta “pedagogica”, ci provò con risultati anche non disprezzabili (soprattutto quello di avere contribuito ad una certa omogeneizzazione di costumi e di punti di riferimento), ma poi tutto andò in crisi perché quella “cultura nazionale” perdeva il connotato della modernità e dunque si doveva passare a qualcosa d’altro, ma non si sapeva né a cosa né a come. Mettiamo fra parentesi, come è ovvio, gli appetiti inevitabili delle varie “tribù” che volevano avere il loro spazio in quello che era un formidabile canale di costruzione del consenso diffuso: quelle trovarono subito dei nidi accoglienti nei partiti e nelle correnti della nostra vita politica.

La disintegrazione del “comune sentire” realizzatasi nella “modernizzazione” italiana ha portato al pluralismo che è divenuto possibile grazie alla lottizzazione politica, perché era l’unica forza che potesse coprire la domanda di “rottamazione” del vecchio equilibrio che veniva da più parti. Poi, siccome chi va con lo zoppo impara a zoppicare, è stato un susseguirsi di chine sdrucciolevoli nell’ intreccio fra politica e cultura (della società civile).

Il risultato è che la politica, anche se avesse la buona intenzione di sbarazzarsi di questo peso, trova difficoltà ad immaginarsi come risolvere due problemi. Il primo è che, mettetela come volete, ma l’impulso iniziale per avviare il processo deve venire dalla politica: ci vuole una legge e ci vuole un organismo che, fateci giocare con le parole, designi chi deve designare. Impossibile che questo non sia un organo “politico” con tutto quel che ne consegue.

Il secondo problema è dato dal fatto che chiunque si designi al vertice della Rai, lo si prenda dalla politica o dalla società civile, dovrebbe avere chiarezza su cosa si aspetta un paese in maniera condivisa come prodotto culturale e d’informazione. Solo così infatti potrebbe rispondere delle sue scelte. E provate a dire che questa è una condizione oggi esistente.