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Più che il passo cambia il contesto

Paolo Pombeni - 10.03.2015
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Si è molto ironizzato sullo slogan del “cambio di passo” con cui Renzi ha voluto connotare la strategia del suo governo. Oggi a cambiare più che il passo dell’esecutivo sembra sia il contesto politico in cui si muove.

Per capire quanto sta avvenendo è opportuno tenere presenti due cose. La prima è un dato contingente, le prossime elezioni regionali. La seconda è un dato che sembrerebbe più strutturale, il mutamento complessivo del quadro politico.

Naturalmente i due aspetti sono intrecciati tra loro, perché il primo è preso come una verifica dello stadio del secondo, ma così è solo in maniera parziale, perché i fenomeni di cambiamento sono lenti, per quanto possano procedere per sussulti: ricordiamoci quanto è durata l’agonia della prima repubblica.

Le prossime elezioni regionali assumono sempre più un carattere di verifica della evoluzione degli attuali equilibri politici fra i partiti. Il PD ha due appuntamenti difficili, uno in Campania e uno in Liguria. I casi sono molto diversi, ma in entrambi c’è in gioco la strategia sul territorio del ristretto gruppo che tiene la segreteria del partito: nel primo si è già dovuto cedere agli assetti di potere locali, nel secondo si dovranno verificare le capacità della sinistra del partito e dei suoi alleati esterni di mettere in crisi scelte del renzismo ruspante.

Non va certo meglio al centro destra che ha anch’esso due appuntamenti complicati: il primo è la nota questione del Veneto, dove la fronda di Tosi misurerà quanto una svolta “moderata” rispetto al lepenismo di Salvini possa avere spazio; la seconda è la Campania dove si vedrà se la crisi di Forza Italia come partito di governo nazionale possa consentire egualmente la tenuta dell’attuale governatore Caldoro (come è noto il Sud tende sempre ad essere “governativo”).

Ci limitiamo ad esaminare due casi macroscopici, ma la crisi dei partiti è molto più diffusa. Tanto per citare altri due casi, il pasticcio della legge elettorale regionale in Umbria che prevede un premio di maggioranza senza soglia, e la crisi di leadership e di coesione del PD trentino a fronte di elezioni municipali in cui non ha praticamente concorrenti sul centro destra (mentre ne ha nel partito autonomista locale) mostrano anch’essi come la tradizionale forza della sinistra egemone nelle competizioni amministrative sia un ricordo del passato.

Cosa pensano di trarre i partiti dal test elettorale di marzo? Verrebbe da rispondere con una battuta: un’altra occasione per i loro leader per zuffe mediatiche nei talk show. Ovviamente la faccenda è un po’ più complicata. In una fase in cui ciascuna forza in campo rivendica con grandi strepiti la propria centralità, ciascuno pensa che i “numeri” che usciranno dalle urne possano fissare almeno agli occhi dell’opinione pubblica lo stato di evoluzione del nostro sistema politico.

E’ questo che porta ad una serie di comportamenti che appaiono piuttosto irrazionali. Berlusconi, per esempio, adesso si butta a fare l’oppositore di riforme che sino ad un mese fa avvallava, solo perché pensa che così potrà un po’ recuperare sulla Lega e un po’ tenerla comunque sul suo carro. Salvini si aspetta un nuovo incremento di voti che lo certifichi come l’unico leader in grado di far vincere la destra. Grillo, che non ha caso si è molto moderato negli ultimi mesi, punta a confermarsi come la forza di interlocuzione obbligata di un PD che non può trovare accordi col centro-destra. La minoranza del PD punta a costringere Renzi a prendere atto della sua forza a livello locale, mostrando al tempo stesso che l’attivismo del premier non porta abbastanza voti per fare il famoso partito della nazione (cioè per rendere il PD un ago della bilancia libero di scegliere le sue strategie senza venire a patti di coalizione).

E Renzi?  Onestamente in quest’ultima fase sembra un po’ appannato a livello di lucidità politica, perché oscilla fra la non considerazione per avversari interni ed esterni che non hanno grande capacità di erodergli il consenso, e la disponibilità, almeno apparente, alla contrattazione politica di stampo tradizionale. L’impressione è che ormai punti a trovare una occasione di consacrazione nazionale diretta, sottovalutando i guasti che possono venire da questa fase di confusione.

L’occasione di verifica su cui molti osservatori dicano punti è il referendum di conferma delle riforme costituzionali che si dovrebbe tenere circa a metà del 2016. Si tratta però di una verifica rischiosa, perché questo tipo di referendum non ha un quorum di votanti per essere ritenuto valido, sicché può succedere che la maggioranza degli aventi diritto, poco interessata a questioni il cui peso forse non percepisce bene, si astenga, lasciando il campo allo scontro, sempre incerto, fra opposte tifoserie politiche. Solo una grande capacità di mobilitazione da parte dei partiti può evitare questo rischio, ma su questa attualmente non c’è da contare molto.

Allora la verifica verrà dal ricorso ad elezioni anticipate? Anche questa è una opportunità non semplice, perché votare prima dell’entrata in vigore definitiva della riforma costituzionale significherebbe tenere in piedi il Senato attuale, con tutti i problemi che questo comporta (una estensione meccanica del cosiddetto Italicum al Senato è semplicemente impossibile a costituzione vigente).

Come si vede il panorama politico è tutt’altro che definito e Renzi deve fare i conti con la presenza di questi orizzonti sfuggevoli ed incerti. Significa che avrebbe bisogno di contare su un sostegno della parte più matura dell’opinione pubblica, quella in grado di creare consenso e di veicolare il cambiamento. Ma è una prospettiva a cui al momento non sembra intenzionato a lavorare.