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La politica del tiro alla fune

Paolo Pombeni - 07.04.2015
Silvio Berlusconi e Matteo Renzi

Cosa sta succedendo nella politica italiana? Certamente un tentativo di rompere definitivamente con una certa fase della nostra storia politica. Lo si capisce dal fatto che le fibrillazioni, chiamiamole così, sono assolutamente generalizzate. Non c’è una sola area politica di rilievo che sia immune da tensioni che almeno potenzialmente puntano a terremotarla. Se ci possiamo permettere una metafora, è un tiro alla fune, in cui ogni squadra punta a far ruzzolare per terra definitivamente l’altra. Nessuno contempla il rischio che la fune si spezzi e che dunque a terra finiscano entrambe le squadre, ma il rischio c’è e non è piccolo.

Per ragioni di posizione e di peso i riflettori sono per lo più puntati sull’area del centro-sinistra dove non c’è solo la tensione fra Renzi e la minoranza interna del suo partito, ma anche quella fra il PD e la proposta alternativa della sinistra cosiddetta “sociale” di Landini e compagni (perché quella non mira certo a rimettere in sella i minoritari del partito, ma semplicemente a sostituirsi a loro come egemoni del campo).

Come spesso accade nello scontro i toni si alzano e questo giova poco. Renzi è bravo a fare battute, ma sottovaluta che questo modo di agire lo incolla all’immagine del guascone-bullo che cercano di cucirgli addosso. Ormai ha una posizione tale che potrebbe ottenere gli stessi risultati con più stile. La minoranza interna infatti non ha grandi argomentazioni per contrastare il suo piano, perché è troppo evidente la strumentalità della maggior parte delle obiezioni che porta ai progetti del premier, ma è anche vero che le sue proposte non mancano di punti deboli: su quelli dovrebbe prendere lui l’iniziativa, a costo di accettare il rischio di essere impallinato in un passaggio parlamentare. Dovrebbe sapere che in quel caso si andrebbe alle elezioni anticipate e che allora, anche con un sistema proporzionale, vincerebbe un consenso tale da rimanere il dominus della scena, marginalizzando il dissenso cosiddetto di sinistra e contemporaneamente il populismo dei due fronti.

A favorire il presidente del consiglio in una operazione di questo genere sta la disgregazione sempre più evidente dell’operazione che Berlusconi aveva a suo tempo realizzato, che era quella di saldare attorno a lui il moderatismo di varia estrazione e il conservatorismo endemico di una società come quella italiana in cui un certo corporativismo imperante gradisce che nulla cambi.

Il fronte berlusconiano è ormai a pezzi, nonostante la vischiosità garantita dalla preservazione di qualche isola di potere. Ipotesi come la rinascita a partire dalla candidatura di un quasi ottantenne alla posizione di sindaco di Milano suonano patetiche. La prospettiva di tentare un ricambio generazionale ha suscitato un polverone di paure in una classe politica che non vuole perdere le posizioni acquisite, consapevole che dopo ci sarebbe il nulla (e le possibili vendette dei nuovi arrivati con armadi di scheletri che potrebbero essere aperti a discrezione …).

Del resto quel che impressiona è che in FI non c’è nessuno sforzo di mettere in piedi qualcosa che assomigli anche lontanamente ad una proposta politica credibile. Limitarsi a criticare può andar bene per i partiti populisti che possono poi vantarsi di fare comunque proposte anche se sono fantasiose e irrealizzabili. Un partito moderato di centro-destra non può giocare queste carte e la sua debolezza nel mettere in campo figure credibili per la “amministrazione” è un handicap pesantissimo in tempi di crisi economica, quando il vecchio motto sempiterno della destra, “ciascuno per sé e dio per tutti”, non può attrarre un popolo alla ricerca di soluzioni che possono essere solo collettive o di sistema.

Il Nuovo Centro Destra che era nato proprio affermando di aver capito che quello era il problema, al momento non è riuscito ad accreditarsi come chi ha almeno l’idea di come cercare la soluzione. Quelle più banalmente di buon senso e disponibili le ha sfruttate Renzi, che se le è intestate tutte facendo fare ad Alfano e compagni la parte semplicemente dei valletti alla sua corte. Il partito in quanto tale non riesce ad emergere come protagonista di dibattito fuori dell’area governativa e non riesce neppure a strappare al premier qualche posizione di rilievo all’interno dell’esecutivo dopo la fuoruscita di Lupi.

Il pericolo per la stabilità del sistema arriva dunque dalla sfida populista, che costituisce un comodo approdo quando si perde la fiducia nella capacità delle classi dirigenti, di governo o di opposizione che siano, di occuparsi dei problemi del paese anziché delle proprie guerre intestine. Anche se si è restii ad ammetterlo, è questo clima che favorisce la dinamica del capo messianico: essendo l’alternativa quella di scommettere sulle utopie di oppositori che se la fanno e se la raccontano, i ceti dirigenti finiscono per preferire di mettersi nelle mani di quello che ha gli strumenti populistici per contenere le pulsioni utopistiche che impazzano, governando in maniera più “realistica” la crisi politica in cui siamo immersi.

Se poi a guadagnare il consenso elettorale necessario per andare al potere saranno gli uni o l’altro non è cosa che possa essere decisa in astratto e fuori delle circostanze con cui ci si dovrà giorno dopo giorno misurare.