I disastri della politica spettacolo
Nonostante la premier non si spenda molto in dichiarazioni ad effetto, sembra che nel complesso non si riesca ad uscire dalla spirale della politica spettacolo. Comprensibile se si tiene conto della tenuta del populismo tanto a destra quanto a sinistra, ma non per questo meno dannosa.
Soprattutto nel momento in cui si registra un cambio di equilibri politici sarebbe opportuno avere consapevolezza di quanto sia necessario raffreddare le situazioni emarginando quei politici (e loro compari) che amano aizzare le tifoserie. Naturalmente le zuffe sono elementi di distrazione di massa che consentono di evitare che si facciano i conti con le vere debolezze di questo paese: la fragilità dell’amministrazione pubblica nel gestire tanto la parte economica quanto quella sociale (vale tanto al Nord quanto al Sud, salvo eccezioni che pure esistono); la questione fiscale che continua a tenere sotto scacco un paese in cui molti pagano imposte salate in rapporto ovviamente alle loro entrate e non pochi evadono allegramente; il problema del nostro rapporto con la situazione bellica apertasi in Europa; la sistemazione dei conti pubblici per toglierci almeno in parte il peso di un debito che altrimenti finirà per travolgerci.
Sono certamente argomenti difficili con cui è arduo accendere le fantasie leggi tutto
L’irresistibile pulsione a fare scena
C’era qualche speranza che Giorgia Meloni puntasse se non sulla rifondazione, almeno sul restyling della destra italiana. Dopo un avvio cauto, sembra che si metta in moto quella maledizione che già pesò sulla sinistra con l’invettiva morettiana al “dì qualcosa di sinistra”. In quel caso si è aperta una china che non ha portato bene. Temiamo che lo stesso succederà con i cedimenti alla speculare invettiva indirizzata al nuovo governo: “dì qualcosa di destra”. Nell’uno e nell’altro caso più che di ideologia, si tratta di populismo pseudo identitario veicolato dai media e dalle mode per i duelli.
Capiamo bene che la premier è tallonata da un Salvini che vuole dettare l’agenda del governo e che lo fa nell’unico modo che ha a disposizione: demagogia spicciola sui soliti temi. Non può più di tanto insistere su bollette ed inflazione, i veri temi che preoccupano la gente, perché è un argomento agitato da tutti e da tutti, maggioranza od opposizione che siano, messo al primo posto. Così per distinguersi deve tornare sui soliti slogan, come l’immigrazione che ci invade, oppure inventarsene di nuovi piuttosto cervellotici come è l’abolizione del limite all’uso del contante: le indagini demoscopiche mostrano che è un tema che non appassiona l’opinione pubblica. Non leggi tutto
Se la destra sceglierà l’alternanza, anziché l’alternativa
Ci si interroga su quanto durerà il governo Meloni e ci si spacca fra chi propende per la profezia di Calenda (“durerà sei mesi”) e chi affascinato dall’abilità di posizionarsi della nuova premier scommette che resterà in sella per un bel po’ di tempo. Ovviamente nessuno è in grado di sciogliere le molte incognite che pesano sull’esperimento: dalla possibile pulsione di Salvini e Berlusconi a renderle la vita difficile all’evoluzione della situazione economica ed internazionale.
C’è però un elemento sul quale converrebbe puntare l’attenzione: la capacità o meno della giovane leader di scegliere fra il puntare ad accreditare un sistema di alternanza o farsi risucchiare nel gorgo di instaurare una alternativa. Detta così può suonare un po’ criptica, ma vediamo di spiegarci. Una certa visione tradizionale, che fa comodo a tanti membri delle classi dirigenti, è che la politica sia la contrapposizione fra visioni contrapposte che non possono fare altro che cercare di eliminarsi a vicenda (in senso politico e metaforico, si capisce…). In Italia è stato a lungo così e per cavarsela si usa dire che siamo il paese dei guelfi e dei ghibellini, dei Montecchi vs. i Capuleti e via elencando. Chi stava al potere avvertiva che quando avessero vinto “gli
La politica ha bisogno di una prospettiva
C’è la politica politicante e poi c’è la politica seria, quella che costruisce o almeno prova a costruire una qualche prospettiva. Il confine fra le due componenti è incerto e molto mobile, ma esiste, sebbene la prima provi costantemente a ricattare la seconda.
Appartiene alla politica politicante il confronto fra i partiti della coalizione di destra-centro che ha vinto le elezioni: spartirsi i ministeri (e vedremo poi cosa succederà con i sottosegretari), le presidenze di Camera e Senato, mostrare i muscoli per sottolineare i pesi reciproci. Questa è una dimensione che non si esaurirà certo negli esordi della legislatura. Abbiamo sentito anche questa volta ripetere da Salvini il famoso “dureremo cinque anni”, frase che non porta fortuna: ricordarsi che lo diceva anche il presidente Prodi e non gli andò benissimo.
Il primo round l’ha vinto Giorgia Meloni, ma al prezzo di concedere molto a Salvini, anche se non proprio tutto quello che voleva. La posizione di vicepremier non sarà paragonabile a quella che condivise con Di Maio nel Conte 1, ma gli consentirà di fare show, una pulsione a cui non sa sottrarsi. Berlusconi esce fortemente ridimensionato nella sua ambizione di mettere in scena la sua seconda “discesa in campo”, ma riuscendo a leggi tutto
Attenti alle parole
Delle parole si fa un uso spregiudicato, tanto ormai è in crisi ogni linguaggio comune codificato. Ciascuno, come si dice volgarmente, un po’ se la fa, se la racconta e se la crede. Nelle more di una politica che, tanto per non smentirsi, si incaglia sui nomi (del futuro segretario del PD, dei futuri ministri), siamo colpiti da un ritorno di slogan che ci pare usino i termini con scarsa consapevolezza di cosa possano significare.
Ha stupito per esempio l’inno di Giorgia Meloni, parlando ad una convention dello spagnolo Vox, ad una “Europa dei patrioti”. In sé la definizione è ambigua, perché reggerebbe anche se volesse dire esattamente il contrario di quel che intende la leader di FdI. Infatti, è plausibile che esista chi considera l’Europa la sua “patria” e nel difenderla si senta pertanto patriota. Del resto, è quel che è successo, e che magari si cerca di far risuccedere nel nostro paese: la patria è il comune o la regione in cui siamo nati, o è l’Italia nel suo insieme? Naturalmente sappiamo bene che si tratta di un artificio retorico per sottolineare “il noi” di partito: nella sinistra ci si chiamava “compagni”, nella DC “amici”, anche la destra deve avere qualcosa di simile e siccome leggi tutto
Partiti da ridefinire
Nell’attesa di vedere se e come la maggioranza di destra-centro che ha vinto le elezioni riuscirà a mettere in piedi un governo all’altezza delle sfide che ci troviamo davanti, a tenere banco è, o dovrebbe essere la necessità più o meno di tutti i partiti di ridefinirsi. Nessuno, infatti, è uscito dalla prova elettorale con un accreditamento della fisionomia con cui si era presentato ai votanti.
Persino il partito con il risultato più forte, cioè FdI, può dire di essere stato oggetto di una adesione del tutto convinta a quella che era la sua fisionomia, perché appare sempre più evidente che a vincere è stata Giorgia Meloni, cioè la leader che è riuscita ad accreditarsi come personalmente in grado di guidare il paese nelle difficili contingenze che abbiamo davanti. Effettivamente lei stessa ne è consapevole, tanto che ha impostato tutta la sua azione in questa fase di transizione obbligata come guidata da prudenza, da assenza di retoriche sopra le righe, da ricerca di trovare legittimazione presso il più ampio spettro possibile di opinione pubblica. Questo però pone in questione il suo partito, che non è affatto chiaro se sia disposto a mettersi sostanzialmente su questa nuova via e sia attrezzato per farlo. Non se ne parla leggi tutto
Una svolta o un ciclo storico?
Lasciamo perdere le stucchevoli analisi sul ritorno al potere dell’estrema destra dopo il fallimento di Mussolini e settant’anni di antifascismo. È roba da storici improvvisati o da banali seguaci dei riflessi di Pavlov di una cultura politica di scarsissimo spessore. Quel che è accaduto con le elezioni di domenica 25 settembre 2022 è un fenomeno noto agli storici: la reazione ad una fase di esasperazione del cambiamento nei momenti di transizione storica.
Paradossalmente Enrico Letta è riuscito ad imporre la sua visione dello scontro elettorale come un confronto fra noi e loro, noi dei “diritti” e loro della “negazione dei diritti”. Solo che non ha capito che da un lato quella esasperazione dei cosiddetti diritti era respinta da una ampia quota della popolazione già incerta sul futuro che la attende, mentre dall’altra più che di negazione dei diritti si parlava di fermarsi nella corsa al sempre più innovativo, di riscoprire il valore connettivo delle impostazioni più o meno tradizionali lasciateci da una storia pregressa. Giorgia Meloni ha colto il punto e si è affermata come leader di una svolta, riducendo il peso delle esasperazioni che stavano nel suo campo, cioè le sparate di Salvini, che a sua volta propone un mondo che non esiste, e le utopie leggi tutto
Democrazia illiberale?
Ci si conceda di toglierci dal frastuono elettoralistico che cresce in quest’ultima settimana e di affrontare, speriamo in maniera appropriata, un tema molto serio venuto malamente alla ribalta con la faccenda della condanna del parlamento europeo e della Commissione europea al sistema politico messo in piedi dal presidente ungherese Orban (vedremo poi se il Consiglio Europeo darà seguito a queste decisioni – ne dubitiamo).
Come tutti sanno, coloro che hanno approvato quella condanna hanno messo in rilievo che il sistema politico ungherese viola il modello costituzionale alla base del patto su cui si è costruita la Unione Europea. Quei non molti che hanno obiettato, fra cui in Italia Lega e FdI con i loro leader, l’hanno fatto sulla base dell’argomento che Orban è stato regolarmente eletto in competizioni almeno formalmente aperte. Dunque si sarebbero rispettate le regole della democrazia, che affida la sovranità al popolo, ma si è sorvolato sul fatto che il leader ungherese e vari suoi seguaci hanno apertamente parlato di “democrazia illiberale”.
Quella definizione è un ossimoro, ovvero una definizione che unisce due termini fra loro in contrasto, oppure non lo è, perché il liberalismo (meglio: il costituzionalismo liberale) è al massimo una delle forme che può assumere la democrazia, la quale potrebbe esistere leggi tutto
I leader incredibili
In questa stramba campagna elettorale che non affascina se non quelli che la fanno e che vedono dovunque grandi riscontri, un fenomeno interessante è quello dei leader incredibili. Tali non nel senso di rivelare chissà quali inaspettate capacità politiche, ma nel senso banale del termine: non credibili per il ruolo che pretendono di rivestire.
Partiamo da Giuseppe Conte, capo politico dei Cinque Stelle. Se c’è un personaggio che viene dal mondo dell’establishment prevalentemente romano è proprio lui. Divenne presidente del Consiglio per una geniale trovata dei vertici pentastellati che si resero conto che il loro successo nelle elezioni del 2018 poteva essere consolidato solo dal classico “papa straniero”. La sua fortuna tanto nel suo primo quanto nel suo secondo governo si consolidò offrendosi come sponda ad una quota di alta burocrazia desiderosa di affermarsi: lo si vide con una certa evidenza soprattutto nella gestione della pandemia e nell’avvio del programma che sarebbe poi sfociato nel PNRR (qualcuno si ricorderà di quelle fantasiose proposte e iniziative).
Come non stupirsi di trovare oggi Conte nei panni del “descamisado” che infiamma il Sud proponendosi come il gran difensore dell’assistenzialismo, tanto quello che distribuisce un equivoco reddito di cittadinanza che non incrementa l’inserimento nel mondo del lavoro, leggi tutto
Le contraddizioni del cosiddetto voto utile
La scelta di Enrico Letta di trasformare il confronto elettorale in una lotta epica fra la destra e la sinistra, poi magari, trascinato dalla mania delle personalizzazioni, fra lui e Giorgia Meloni, non è una decisione opportuna per il futuro della democrazia italiana. Non solo perché probabilmente ci getterà nell’ennesima riedizione di una legislatura avviluppata nella eterna rappresentazione della politica come lotta fra gli angeli e i demoni, cosa che favorisce in entrambi i campi l’affermarsi dei pasdaran e dei demagoghi. Molto di più perché apre il varco proprio a quella tentazione cosiddetta “presidenzialista” che invece il PD e altri non vorrebbero vedere instaurata.
La polarizzazione del confronto fra due sole aree veramente legittimate ad interpretare le variabili della vita politica porta ad affidare poi la scelta del “vincitore” al risultato delle urne, negando però qualsiasi spazio dialettico e qualsiasi vero ruolo per l’opposizione di chi perde, ridotta solo a recitare la litania della demonizzazione del vincitore nella speranza di cacciarlo alla prossima scadenza elettorale. È uno spettacolo poco esaltante che abbiamo già visto lungo l’arco della cosiddetta seconda repubblica.
La plastica rappresentazione di cosa significhi un andazzo del genere è nell’occupazione dell’ampio sistema di sottogoverno che è stato costruito. La RAI è emblematica perché è, leggi tutto