Una questione seria: la crisi del campo largo
La crisi provocata nel cosiddetto “campo largo” da Giuseppe Conte con il sostegno del duo Fratoianni-Bonelli non è una banale lite per tattiche elettorali, anche se queste vi hanno parte (i Cinque Stelle in Liguria devono confrontarsi con la concorrenza di una dissidenza grillina lieta di attaccarli per il cedimento a Renzi e se M5S uscisse male dalla conta elettorale il suo futuro sarebbe grigio). Si tratta piuttosto del riaccendersi della competizione per l’alternativa alla testa del futuro equilibrio politico italiano dopo la fine dell’età di Berlusconi.
Per capire, è necessario risalire alle origini dell’insediamento di Conte alla testa del movimento grillino. Come è noto, il cosiddetto “avvocato del popolo” non proveniva dalle file del movimento del vaffa, ma piuttosto dagli ambienti della più o meno medio-alta classe dirigente arrembante. La sua presa di potere fu in gran parte connotata dallo spazio che egli aprì per quel ceto politico-burocratico grazie alla guida dell’esecutivo, giocandosi abilmente il sostegno di grillini poco formati al gioco romano e di una Lega salviniana che si pensava fortissima perché detentrice della chiave populista per gestire un largo consenso.
Quando la coalizione giallo-verde crollò per l’avventurismo dell’allora “Capitano”, Conte riuscì a rimanere in sella cambiando spalla al suo fucile, cioè usando un PD in crisi di nervi per continuare nel suo progetto. La gestione della crisi pandemica così come il super bonus per l’edilizia, ma stiamo parlando solo della parte emergente dell’iceberg, servirono per consolidare questo tentativo di avviare un cambio dell’egemonia nella distribuzione del potere. Gli errori di gestione e la scarsa qualità del personale politico-burocratico impiegato portarono alla crisi del progetto, come intuì l’abile corsaro politico Renzi, che infatti si intestò il ritorno ad un governo di stabilizzazione affidato ad un uomo del grande establishment dirigente come è Mario Draghi.
Conte non mollò. Riuscì a far cadere Draghi, continuando a contare sulla debolezza strutturale di un PD che non riusciva a stabilizzare la sua situazione interna e che aveva perso appeal come partito storico di governo. La seguente vittoria elettorale della destra-centro non contrastava più di tanto il disegno di Conte: poteva essere la fase necessaria per consolidare la nuova distribuzione degli equilibri all’interno della “alternativa” che prima o poi sarebbe inevitabilmente arrivata in un sistema che ormai non contemplava più egemonie politiche di lunga durata. Aggiungiamoci che la persistente crisi nel PD, squassato da lotte di corrente, sempre più vittima delle pressioni delle lobby dell’informazione che ne delegittimavano la storia, incapace di elaborare una linea politica autorevole, confermava la permanenza di spazi di azione per lo sconvolgimento del tradizionale quadro politico, quello della contrapposizione fra sinistra più o meno storica e destra conservatrice ora rinvigorita dalle angosce populiste. Il contrastato avvento alla segreteria del PD della “estranea/esterna” Elly Schlein andava nella direzione indicata, tanto da far addirittura scommettere vuoi su una scissione fra movimentisti e riformisti nel partito storico della sinistra, vuoi sul riaprirsi di uno spazio politico “di centro” che potesse assumere una qualche funzione di ago della bilancia.
Arriviamo così alla fine, per ora, della nostra storia. La spaccatura nel PD non è avvenuta, perché tutto sommato quando un partito è grosso ed ha un bel po’ di potere dispone di una collante formidabile per tenere insieme le tensioni (ricordarsi della vicenda della DC). La ventata di ottimismi sulla decrescita felice, gli integralismi pseudo-ambientalisti, le retoriche sulle uscite utopiche dalle nostre crisi socio-economiche perde come minimo vigore. Tutto questo rilancia la domanda di una eventuale alternativa affidata ad una classe politica che abbia almeno un certo grado di preparazione “professionale” e depotenzia il sogno di quei ceti socio-economico-burocratici che pensavano scalzare o almeno di scalare i vecchi equilibri (ma così non c’era spazio per esperimenti “centristi”).
Di qui la crisi dei sogni del partito di Conte, che si vede costretto nel cosiddetto “campo largo” a fare la fine del “cespuglio” della fu Quercia-PD. E per il suo progetto fare quella fine significa in prospettiva sparire, magari per lasciare quello che fu il suo ruolo di promotore di un ricambio di ceti dirigenti all’odiato Renzi o a Calenda (che lo farebbero, è ovvio, in modo diverso). Non dovrebbe stupire che il capo di M5S non ci stia e rovesci il tavolo (altro che sedersi attorno ad esso per concordare strategie). Tirarsi dietro l’estrema sinistra che è da sempre frustrata per non riuscire a guadagnare quella egemonia storica a cui si ostina a ritenere di avere diritto non è poi così difficile, perché anche da quelle parti il ruolo di “cespugli” non piace per nulla.
Come finirà? I tempi non sono brevi, le incognite sul terreno molteplici (dalla ridefinizione degli equilibri geopolitici sia economici che di potenza), l’evoluzione del sistema sociale molto mobile e turbolenta. L’Italia è in pieno dentro queste dinamiche. Tuttavia, se non ci sbagliamo, il movimento che si sta chiarendo con la crisi del cosiddetto campo largo prelude ad un ulteriore stadio di evoluzione del nostro sistema politico, ancor più di prima destinato ad uscire dal quadro dei residui della obsoleta sistemazione della distribuzione di ruoli, compiti e istituzioni ereditati dalla rovina della “repubblica dei partiti”. Ci sarebbe necessità e spazio di riflessione politica, ma è un genere passato di moda.
di Paolo Pombeni
di Leonardo Goni *