Le lezioni che non si vogliono imparare
Mentre il quadro della politica politicante registra sempre più zuffe e sgambetti fra i partiti delle due coalizioni contrapposte (Salvini che va da Orban, Conte che, con il sostegno di AVS, boicotta il “campo largo”), la politica seria ha perso un’ulteriore occasione per mettere mano ad una strozzatura del nostro sistema.
È quanto si potrebbe imparare dalla vicenda drammatica dell’alluvione in Emila Romagna, e, in misura minore, nelle Marche. La politica politicante di cui sopra ne ha subito fatta una occasione per scambiarsi accuse: dal lato governativo il ministro Musumeci e qualche colonnello emiliano di FdI per attaccare la regione che non avrebbe speso i soldi per la messa in sicurezza del territorio, dal lato dell’Emilia Romagna il governo regionale col PD a copertura per dire che invece le colpe sono del governo centrale che non ha mantenuto gli impegni presi dopo l’alluvione del maggio 2023. In verità, come dice un proverbio popolare, ce ne sarebbe tanto per l’asino quanto per chi lo conduce.
Cerchiamo di sorvolare sul tema della credibilità di Musumeci che è stato presidente della regione Sicilia, non proprio un modello nella spesa dei soldi pubblici e negli investimenti sul territorio (qualcuno ricorderà pure la situazione della rete idrica dell’isola…) e affrontiamo invece il tema per le problematiche che ha messo a nudo, la principale delle quali è la situazione deteriorata del sistema dell’intervento pubblico.
Ancora una volta, al di là delle manovre di bassa politica nella scelta di nominare commissario alla ricostruzione anziché l’allora presidente dell’Emilia Romagna, Bonaccini, il generale Figliuolo, eroe della operazione contro il Covid, una ragione che poteva anche essere plausibile era quella di scegliere una istanza “centrale” in luogo di gestioni “periferiche”. Onestà vorrebbe che si riconoscesse che quella scelta si è rivelata totalmente sbagliata, anche se non è detto che l’altra sarebbe stata di sicuro più efficiente.
Nella gestione della campagna vaccinale l’accentramento della regia dell’operazione ha funzionato e bene, ma perché l’operazione era relativamente semplice da un punto di vista burocratico: non c’erano appalti da gestire (quello dei vaccini era stato accentrato a livello europeo), non c’era varietà nelle tipologie di intervento, non esisteva molteplicità di obiettivi. Questo spiega perché un generale esperto nella gestione della logistica e, non dimentichiamolo, estraneo al giro della politica “inventiva” (mascherine da comprare qua e là, banchi a rotelle, stazioni vaccinali da addobbare con slogan e cartelli, ecc. ecc.) era la persona giusta.
Tutt’altro quadro nella gestione del post alluvione. Il Commissario non aveva gli strumenti per incidere davvero sulla pluralità di interventi da mettere in atto, la cui realizzazione doveva passare per la trafila di vari enti (regioni, vari enti statali, comuni) e soprattutto prevedere l’accensione di collaborazioni con ditte esterne non facili da reperire. Soprattutto il rapporto con le quali richiede di affrontare problemi vari di controllo amministrativo: cose anche giuste, perché bisogna evitare disinvolture quando non malversazioni (storie ben conosciute), ma anche pastoie che sottopongono le burocrazie che devono mettere a terra gli interventi al rischio di controlli anche questi disinvolti di uffici della Corte dei Conti, magistrature varie e quant’altro. Il risultato, anche questo ben noto, è l’estrema cautela, il che vuol dire estrema lentezza da parte di tutti nello svolgere i processi decisionali richiesti.
Non parliamo poi del problema dei “ristori” a chi ha subito danni. Anche qui il solito incubo della presenza di profittatori che esibissero perdite che non avevano avuto o che sovrastimassero quelle reali ha portato alle solite procedure farraginose, piene di certificazioni, valutazioni di esperti e quant’altro, col risultato che o la gente ha addirittura rinunciato a presentare le domande o si è vista poi riconoscere per documentazioni giudicate carenti indennizzi ridicoli rispetto alle perdite avute. Di nuovo si pone il problema di un sistema burocratico che ormai è ingabbiato in queste paludi.
Pensare che un generale, che ovviamente non dispone da nessun punto di vista del personale specializzato per gestire un caos del genere, avrebbe potuto trovare la bacchetta magica per trasformare tutto in un monumento di efficienza è stato semplicemente ridicolo. Ci si è aggiunto che le disponibilità di risorse economiche erano limitate e arrivavano con lentezza (quando arrivavano), che alla fine una parte non piccola degli interventi ricadevano su comuni di medie o piccole dimensioni che non dispongono di strutture tecniche adeguate a queste eccezionali calamità, e non sarà difficile capire perché la gestione di due emergenze che si sono sommate (l’alluvione del maggio 2023 e quella del settembre 2024) si è rivelata una prova catastrofica per la mano pubblica: tutta, tanto quella dello stato, quanto quella degli enti locali.
Avrebbe potuto essere una buona occasione per mettere mano ad interventi di riforma dell’intero sistema dell’intervento pubblico, senza perdere tempo a litigare sulle colpe, alcune reali altre scovate strumentalmente, delle varie parti politiche. Certo in novembre ci sono le elezioni in Emila Romagna e non siamo così sprovveduti da non capire che puntare sulla rabbia della gente per quanto è accaduto sia una cinica scorciatoia per ampliare il consenso degli uni e degli altri (e non viene neppure disprezzato che la rabbia porti all’astensionismo, da cui possono venire sconvolgimenti degli equilibri elettorali tradizionali).
Pensiamo però che questi calcoli siano misera cosa. Poiché è prevedibile che di emergenze, climatiche e non, ne avremo ancora, sarebbe una buona occasione per mettersi tutti all’opera per quella riforma della “macchina pubblica” sempre auspicata, ma poi nella pratica lasciata ferma al livello di slogan per non fare i conti con un cambiamento che inciderebbe e non poco sul modo generale di fare politica da parte di tutti i partiti.
di Paolo Pombeni