Questioni di equilibrio
Sembra che il Quirinale si sia affrettato a far sapere che l’intervento a Bari di Mattarella si riferiva al problema della nuova votazione per il giudice mancante alla Corte costituzionale: evidentemente si vuole evitare che tutto venga risucchiato nello scontro fra governo e componenti della magistratura a proposito della “operazione Albania”. Chi ha letto i commenti della stampa e seguito qualche talk show avrà visto che ormai è tutta una lotta fra “curve” politico-corporative: ciascuno sta interpretando le parole del Presidente della Repubblica come una reprimenda all’avversario e un sostegno alla propria parte.
La questione di fronte alla quale ci troviamo è delicatissima e davvero ci sarebbe da far tesoro delle parole di Mattarella che ricorda come le istituzioni sono un bene comune e funzionano se tutti collaborano a farle funzionare ed a sentirsene corresponsabili. Non vuol affatto dire rinunciare ad avere idee diverse su come si possa operare, ma invece sapere che nessuno dovrebbe pensare di usare il suo “potere” per ostacolare lo sviluppo di una normale dialettica di posizioni da cui far scaturire un sentire comune e condiviso.
A chi si spertica a parlare di “sgrammaticature costituzionali” perché non si tiene conto della teoria della separazione dei poteri, andrebbe ricordato che quella è una manipolazione del pensiero di Montesquieu, che non parla di poteri sperati, ma di distribuzione di funzioni a diversi organismi nell’esercizio di un potere che rimane unico e unitario nelle mani della sovranità, che in democrazia appartiene al popolo (poi, se volessimo dirla tutta, in quell’autore la magistratura era il “potere neutro”). Il quale “popolo”, peraltro, non è il corpo elettorale che si esprime di volta in volta, e che dunque è mutevole, ma il soggetto politico-istituzionale creato dalle norme costituzionali (come è ben spiegato nell’art. 1 della nostra Carta).
Dunque, nel valutare i vari scontri che si stanno accendendo, è a questo orizzonte che si dovrebbe fare riferimento. Classi dirigenti consapevoli della delicatezza del momento che sta attraversando il mondo (viene da chiedersi quante ce ne siano ancora) dovrebbero avere coscienza del rischio di mettere in crisi la tenuta del nostro sistema con la ostinata volontà di ciascuna parte di imporre l’assolutezza delle sue visioni e di conseguenza il proprio potere.
La stabilità pur relativa del quadro politico è essenziale sia per questioni di presenza e di credibilità del nostro paese nel quadro internazionale, sia per la non meno essenziale questione della sostenibilità della nostra economia, che, pur non andando male, è sotto il ricatto di un mostruoso debito pubblico che può essere gestito solo in un quadro di tenuta del nostro sistema (in caso contrario saremo travolti dalla speculazione che riprenderà fiato).
Per questo non si può guardare con accondiscendenza né alla volontà di molte componenti della maggioranza e anche del governo di cercare sempre la via del braccio di ferro quando sono messe in discussione le sue iniziative, né alle intemerate di chi vorrebbe sostituirlo accusandolo di ogni peggiore infamia (ammesso e non concesso che poi ci sia una qualche intesa su cosa fare davvero una volta che si riuscisse nell’impresa).
Guardando con un minimo di distacco la diatriba principale in corso, che è quella sulla gestione dell’immigrazione, ci sono molte perplessità su come viene gestita da entrambe le parti. Il governo e la maggioranza cercano il colpo di teatro, cosa che, non dimentichiamolo, trova anche un certo consenso non solo in Italia, ma anche all’estero, perché si vorrebbe mostrare ad opinioni pubbliche fortemente agitate che si possono inventare soluzioni ardite. Non ci pare sia per nulla una buona strada, ma va riconosciuto che è quanto rientra nelle discrezionalità di rischio di un governo.
Dal lato opposto, le ragioni di chi usa “la legge” per contrastare questi colpi di teatro ci pare altrettanto… teatrale. L’accusa a Salvini di sequestro di persona per non avere consentito degli sbarchi non sembra configurare quella fattispecie: difficile ritenere che si sequestri qualcuno impedendogli uno specifico movimento, quando rimane libero di farne vari altri. Diverso il caso del rifiuto di atto politico-amministrativo dovuto: qui c’è materia di discussione, ma in questo caso la responsabilità, dato il rilievo pubblico e la lunga durata della vicenda, non può essere circoscritta ad un solo ministro, perché coinvolge l’intero governo.
Altrettanto si dica per la questione, scivolosissima, della definizione di “paese sicuro” per quanto riguarda il tema del rimpatrio dei migranti irregolari. Estendendo la valutazione, i paesi sicuri rimarrebbero pochissimi: per dire, anche l’Italia è stata sanzionata a livello europeo per le condizioni delle sue carceri. Ci sarebbe da valutare la situazione del singolo soggetto richiedente asilo e non quella generica del paese a cui lo si vuole rimandare: un paese può perseguitare gli omosessuali o gli avversari politici, ma non creare particolari problemi a chi non rientra in queste categorie (e molti migranti irregolari lo sono per ragioni economiche e non per altre). Inoltre c’è il tema, tutt’altro che secondario, della delicatezza di esprimere giudizi sulla affidabilità di altri stati visto che con questi dobbiamo poi avere relazioni di vario genere: la politica estera non è una banalità per addetti ai lavori.
Tutto questo si dice non per schierarsi a favore di una parte o di un’altra, ma per richiamarle tutte, se fosse possibile, al dovere di ragionare lasciando perdere le logiche da “fan-club” e le fantasie tanto sul blocco contro la reazione, quanto quelle sulla rivincita di questo o quel “polo escluso”. Non è tempo, né c’è il contesto per lasciarsi andare a queste derive che non portano mai a buoni approdi.