Lezioni da un quadro di ambiguità
A compensare la pessima figura fatta dalla maggioranza in relazione alla vicenda del processo Salvini a Palermo è arrivata la conferma della attribuzione a Raffaele Fitto di una vicepresidenza esecutiva nella Commissione Europea. Non sono ovviamente due fatti collegati, ma illustrano in parallelo un punto di forza e un punto di debolezza del governo.
La debolezza è nell’essere costretti a sostenere la posizione di un politico che indulge solo al teatrino: difficile immaginare qualcosa che si attagli più a questa immagine della sua recita di autodifesa con un video declamato persino in una sorta di costume di scena. Dapprima Meloni, ma poi anche Tajani si sono sentiti in dovere non solo di solidarizzare con l’attuale vicepresidente del Consiglio, ma di farlo accettando il terreno di critica generalizzata ad una magistratura che sarebbe nemica della politica ed in particolare interessata a far cadere il governo.
Questa argomentazione è, almeno al momento, molto debole. Non è la magistratura che propone di condannare Salvini, ma è una procura della Repubblica che come tale non la rappresenta. Il sistema giudiziario prevede infatti che quanto proposto dalla pubblica accusa sia vagliato da un collegio di primo grado, e poi da un collegio di secondo grado e infine anche da una Corte di Cassazione. I casi in cui nel precorrere questi tre gradi di giudizio le tesi iniziali dei PM proponenti sono state cambiate o addirittura disattese sono numerosi, Per non andare tanto lontani si veda il caso recente della pronuncia di primo grado sul caso dell’Ilva di Taranto ribaltato dalla Corte di appello.
Certo poi c’è la ANM che non resiste alla tentazione di attribuire ad ogni singolo suo membro la rappresentanza della categoria, ma in fondo è un sindacato e alle logiche di ruolo soggiace. Sarebbe stato più serio che la presidente Meloni e Tajani avessero richiamato la complessità della partita, visto anche che non è che, almeno per quel che si legge sui giornali, la requisitoria dei PM di Palermo sia un monumento di scienza giuridica, Non l’hanno fatto per una semplice, ma preoccupante ragione: il timore che Salvini possa, come altre volte ha fatto, trarre l’occasione di una presunta mancanza di solidarietà nei suoi confronti per mettere in crisi il governo.
Qui sta la debolezza del governo di destra-centro: la consapevolezza che se salta l’accordo fra i tre partiti (e mezzo) che l’hanno sottoscritto si apre una crisi che tanto FdI quanto FI non saprebbero come gestire. Si aprirebbe un caos istituzionale e politico, visto il contesto, ma non è questo che li interessa. Per durare hanno bisogno di mantenere in piedi l’alleanza che non è affatto fra forze omogenee: di qui la loro sensazione di essere una compagine sotto assedio.
Se invece guardassero al successo dell’operazione Fitto, potrebbero concludere che muovendosi con equilibrio e accortezza si possono portare a casa buoni risultati. Nel caso specifico Meloni è riuscita a tenere insieme due ruoli: quello di componente importante dell’ala conservatrice del parlamento europeo (non votando per Von der Leyen e i vertici UE), e quello di premier del governo italiano sfruttando il fatto che l’attuale presidente della Commissione ha deciso, giustamente a nostro avviso, di lavorare tenendo insieme un certo equilibrio fra i governi nazionali piuttosto che un effimero gioco di maggioranze partitiche. Meloni ha capito che se questo era l’obiettivo, VdL non aveva nessun interesse a negare all’Italia, non solo paese fondatore, ma Stato che nel Consiglio Europeo può sia aiutare che fare opposizione, un ruolo adeguato.
Hanno sbagliato le opposizioni a cavalcare la leggenda di una Meloni che sarebbe risultata perdente per avere sbagliato i calcoli. Piuttosto andrebbe fatto notare alla nostra premier, anche se non ci pare che l’abbiano fatto in molti, che ha avuto successo perché ha scelto la persona giusta: non ha voluto imporre uno del cerchio magico della sua giovinezza ex missina, ma un politico competente che, per quanto ora si muova tranquillamente nelle sue fila, viene da una storia del tutto diversa e che anche per questo ha una credibilità che ha potuto far valere.
Naturalmente proprio l’aver messo in correlazione i due fatti ci fa dubitare che all’atto pratico una linea prevalga sull’altra. La viscosità del populismo demagogico è un’eredità da cui la destra fa fatica a sganciarsi. Se le si aggiunge il retaggio del complesso di rivalsa per essere finalmente usciti dal recinto di quelli che erano considerati soggetti politici di serie B (il cosiddetto mito del underdog) si capisce che siamo davanti ad una miscela esplosiva che non sembra si riesca a disinnescare. D’altro lato la solidità che al momento conserva il governo, favorito da una opposizione che fatica a trovare un’identità e un progetto dovendo a sua volta sommare, come suol dirsi, le mele con le pere, non sembra sufficiente a portare il governo a lasciar cadere la politica delle bandierine e a dar prova di una visione ampia della costruzione del suo consenso nel momento di un passaggio tutt’altro che semplice.
Quanto durino gli equilibri precari nel nostro Paese non si riesce mai a prevederlo. A volte anche decenni, ma la storia dovrebbe aver insegnato che rifiutandosi di gestirli in una direzione costruttiva non si finisce bene.