Una politica che torna in movimento?
Terminato il classico periodo a cavallo del Ferragosto quando la politica si dedica a lasciar partire un po’ di fuochi d’artificio, viene il tempo in cui si deve stringere e capire cosa ci aspetta per l’autunno che sarà assai più “militante” dell’estate annunciata da Elly Schlein.
Il tema di fondo sarà inevitabilmente il varo della legge finanziaria: tema arduo non essendoci che modeste risorse a disposizione per interventi di sostegno ad un’economia appesantita da una situazione sociale che vede salari depressi e consumi a rischio contrazione, mentre i partiti, tutti, hanno bisogno di annunciare ai rispettivi elettorati una distribuzione di risorse che compiacciano le attese delle molte corporazioni italiane.
Vista la situazione e tenuto conto dei vincoli europei sulla determinazione del nostro bilancio oppresso da un debito molto alto, sarebbe necessario che si potesse avere un clima di responsabilità generalizzata per evitare zuffe parlamentari, nonché conseguenti risultati a capocchia che nuocerebbero alla tenuta della nostra affidabilità sul piano europeo e internazionale (una risorsa a cui non possiamo rinunciare). Attendersi qualcosa in questo senso appare purtroppo azzardato, perché la situazione è più che confusa sia nel campo della maggioranza di governo che in quello dell’opposizione.
La ragione è maledettamente semplice: siamo in attesa dell’ennesimo test elettorale, le regionali in Liguria, Emilia Romagna e Umbria, e, come sempre, si vogliono trarre da quei risultati gli oroscopi sui futuri equilibri politici del paese (ma sarà una storia infinita: in primavera arrivano le elezioni in Veneto, Toscana, Campania…). Il fatto è che, al di là di quel che si dice, il test non riguarda che parzialmente lo stato di salute di maggioranza e opposizione (da questo stretto punto di vista le elezioni regionali incidono più psicologicamente che realmente sugli equilibri parlamentari), ma avrà piuttosto ad oggetto la composizione dei due “campi”.
Siamo infatti in presenza su entrambi i versanti di alleanze che a dir poco diventano problematiche. Nella destra-centro la leadership di Giorgia Meloni non riesce ad affermarsi in maniera determinante. Salvini la sfida, consapevole che la sua Lega deve recuperare o è destinata a diventare una gamba zoppa: ciò significa per lui e per i suoi uomini accentuare il populismo e la rincorsa alle bandierine da piantare qui e là. Non è Vannacci che gli farà ombra (sono fenomeni che costituiscono fiammate di fuochi di paglia: ne abbiamo viste tante nella storia del nostro paese), ma la mancanza per lui di uno spazio diverso dal radicalismo retrogrado. Una destra capace di orientarsi su prospettive di conservatorismo maturo sembrava essere la proposta, sino a poco tempo fa di un certo successo, di Giorgia Meloni, la quale però a un certo punto sembra avere paura di continuare su questa strada perché teme che una quota storica del suo elettorato sia ancora legata alle sue vecchie radici post missine (per questo diciamo che la premier non mostra il carisma necessario per tirarsi dietro fideisticamente i suoi).
Forza Italia in questo contesto si è accorta che il paese profondo, che non è quello dell’estremismo esaltato, comincia ad essere preoccupato di una possibile deriva da destra radicale, la quale ci metterebbe in difficoltà sul piano della tenuta economica (in un quadro dove non andiamo male) e dei rapporti internazionali. Per questo Tajani, che coglie le sensibilità di molta parte delle classi dirigenti, cerca di posizionare FI come il partito conservatore moderato, convinto che in fondo questa sia la domanda del momento. Non lo fa per scalzare la Meloni, impresa non alla sua portata, ma per raddrizzare la barca della premier nella direzione di quel conservatorismo maturo di cui abbiamo parlato poco fa.
Nell’opposizione che succede? A fronte di fibrillazioni nella maggioranza dovrebbe crescere l’impulso alla alleanza il più larga possibile per sfruttare le crepe che si manifestano nella coalizione di governo. Così è solo sulla carta, perché in realtà anche in questo “campo” domina la necessità di procedere alla larga coalizione solo dopo che ciascun partito (anzi, temiamo, ciascun leader e leaderino) avrà guadagnato il massimo di punti da far valere quando si costruirà la sfida della “alternativa”. Ecco allora che la cortina fumogena si alza col pretesto di tenere in purgatorio Renzi e Calenda: Bersani vuole che facciano penitenza (altrimenti dovrebbe ammettere che le sue uscite sono ormai più roba da talk show che da analisi politica), Conte sventola che i voti aggiuntivi del “centro”, pochi a suo dire, ne farebbero perdere molti di più. Omette di precisare che sarebbero voti che perde non la coalizione alternativa, ma il suo M5S, cioè l’unica cosa di cui gli importa veramente.
Queste fibrillazioni si riverbereranno sui test delle prossime regionali? In qualche modo ovunque, ma in modo precipuo in Liguria che è la vera situazione in bilico sia per la destra-centro, sia per il centrosinistra (entrambi finora non riescono davvero a mettere in pista un candidato condiviso e trascinatore). Ora quasi certamente la Liguria sarà la prima ad andare al voto, sembrando ormai escluso l’accentramento su un unico election day, e dunque i risultati di tutti i partiti in quella tornata verranno dissezionati e daranno vita ad un confronto (usiamo una parola gentile) che si rifletterà su un parlamento impegnato a gestire il passaggio della legge di bilancio, più, speriamo di no, magari l’accentuarsi delle crisi internazionali.
Una classe politica degna di questo nome avrebbe di che riflettere.
di Paolo Pombeni