Ultimo Aggiornamento:
07 settembre 2024
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La politica delle incertezze

Paolo Pombeni - 04.09.2024
Schlein e Conte

Non ci sono sicurezze negli oroscopi della politica, né a destra, né a sinistra. Le dichiarazioni ufficiali di entrambe le parti dicono il contrario, ma basta tenere d’occhio le evoluzioni in corso per vedere il dominio di un discreto spaesamento.

La premier Meloni punta a tenere ferma la barra per una legge di bilancio senza cedimenti alla voglia di bonus e mancette (comunque camuffati) per avere a disposizione risorse per investimenti e per sostenere almeno un poco i redditi dei meno fortunati e delle classi medio-basse. Lodevole obiettivo, non fosse che poi fa fatica a contenere le pretese di chi ha lucrato in anni passati e non vuole arrendersi alla fine degli anni di privilegio: vedi alla voce questione dei balneari, che è una vergogna, ma a cui non si riesce a dare una soluzione accettabile (non solo dall’Europa, ma da tutti quelli che di rendite di posizione non ne hanno mai avute).

Le opposizioni puntano a fare “campo largo” su temi che difficilmente possono essere oggetto di dissociazione: salario minimo, politica sanitaria efficiente, un ambientalismo dato ormai per scontato, difesa dell’equilibrio distributivo delle risorse nazionali. Peccato che siano tutte etichette sotto cui non si vedono progetti articolati in modo da risultare convincenti. Anzi, appena ci si azzarda a specificare sui contenuti il campo largo va subito in crisi, perché nel concreto le consonanze sono pochine e alle sue bandierine ideologiche non rinuncia nessuno.

Il fatto è che la situazione complessiva è ricca di incertezze e su queste tutti fanno fatica a trovare delle convincenti rotte di intervento. Prendiamo la questione europea. Chi osserva con attenzione quello che sta avvenendo avrà notato che la UE è priva in questo momento del punto di riferimento che bene o male ha costruito sin qui le alleanze per guidarla. È venuto meno l’asse franco-tedesco e non c’è un asse alternativo che possa coniugare quelli che erano i loro apporti: la tradizione diplomatica geopolitica della Francia e la potenza economica della Germania. Si sono dissolte entrambe e ciò indebolisce molto la presidenza von der Leyen, che non a caso si barcamena facendo, come si dice con pesante ironia, la democristiana (vecchia maniera), mediando non per proporre progetti per il futuro, ma per tenere in piedi un equilibrio precario.

Per quanto riguarda casa nostra, ma non solo, aggiungiamoci la questione ucraina, che si sta incancrenendo con Kiev che non riesce a blindare a sua posizione e con la Russia che implacabilmente continua, purtroppo con un certo successo sia pure parziale, nella sua opera barbarica di distruzione della nazione attaccata. La conseguenza è che si dubita, senza ammetterlo apertamente, che si possa trovare una via d’uscita e quindi ecco le giravolte per evitare di dover in futuro rapportarsi con una Russia che raggiunge il suo obiettivo predatorio e che perciò rimane una potenza con cui fare i conti. Anche qui il risultato è una accresciuta ambiguità di comportamenti, che mettono insieme l’inconciliabile, sostenere Kiev, ma senza concederle di portare la guerra su quel territorio russo da cui partono le operazioni per radere al suolo le sue città e la sua economia. Gli appelli a lasciare lo spazio alle iniziative diplomatiche hanno la stessa credibilità di quelli che invocano qualche potenza ultraterrena capace di fare il miracolo di porre fine alle ostilità. Né Zelesnky, né Putin sono in grado di scendere sul terreno di un negoziato costruttivo e non hanno neppure voglia di farlo. Si tratta di uno scenario in cui gli avvicinamenti di posizioni fra destra e sinistra sono in crescita.

Si potrebbe continuare nell’elenco, rammentando la crisi sempre più ingovernabile che sta interessando il Medioriente nonché le incognite sull’esito della campagna presidenziale americana, solo per limitarci a qualche altro caso cruciale. Ce n’è abbastanza per capire perché la politica di casa nostra non riesce ad esprimere una progettualità di cui ci sarebbe tanto bisogno considerando le contingenze in cui ci troviamo.

I partiti sentono troppo il fiato sul collo di una opinione pubblica che in gran parte è disorientata, e per il resto per evitare angosce si aggrappa alle vecchie certezze di ideologie di maniera, cosa che produce non pochi guai. Così il centrodestra non riesce ad uscire dalla concorrenza interna fra chi specula sulle paure che spingono verso le sponde della reazione, mentre il centrosinistra si ingarbuglia fra chi vuole tenere tutto assieme in nome della confluenza su vaghi principi generali (e in vista dell’interesse a vincere posizioni di governo nelle elezioni regionali e amministrative) e chi comunque vuol difendere ad ogni costo il proprio residuo di identità distinta (per più o meno credibile che sia) temendo altrimenti di vedersi risucchiato nel gorgo della ammucchiata unica.

Dovrebbe essere banale comprendere che in questa maniera il nostro Paese si vede erodere qualsiasi credibilità internazionale, cosa che non possiamo proprio permetterci. Non per assurde pretese sovraniste, ma per la elementare considerazione che se si perde il proprio status di affidabilità diventerà difficile sia sostenere il nostro debito mostruoso che dipende dagli investitori per parte non piccola internazionali, sia approfittare delle opportunità che sono presenti in un rapporto di interscambio continuo come è ormai determinato dalle relazioni interstatuali.

Inevitabilmente una seria presa di coscienza di questa congiuntura, se si riuscirà a farla, implicherà una revisione della formazione e del peso delle leadership politiche oggi presenti quando sono, come in ben più di un caso, inadeguate per le sfide che abbiamo davanti. Ma ciò provoca e provocherà sempre più lotte senza tregua perché chi si è guadagnato uno spazio di potere, modesto o cospicuo che sia, non sarà certo collaborativo. Ecco un’incognita di cui si dovrà tenere molto conto nei prossimi mesi.