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Centro-periferia, le radici storiche del voto lombardo-veneto

Luca Tentoni - 04.11.2017
Referendum Lombardia-Veneto

Nelle ultime due settimane, l'esito dei referendum consultivi in Lombardia e Veneto è stato analizzato sotto moltissimi aspetti. L'Istituto Cattaneo, per esempio, ha confermato l'apporto essenziale della Lega (che con i suoi due presidenti di regione ha fatto da traino alla consultazione) e il contributo degli elettori del M5S (in misura maggiore rispetto a Pd e Forza Italia) all'affluenza. Si è sfiorato, in alcune analisi, un tema che tuttavia ci appare cruciale nella piena comprensione delle dinamiche di questo voto: il differente comportamento degli elettori dei capoluoghi rispetto a quello degli aventi diritto al voto che vivono negli altri comuni. La maggiore affluenza "in provincia" è dovuta alla forza della Lega, che nelle città principali ottiene sempre percentuali molto più basse che altrove, mentre nel caso del M5S c'è una maggiore omogeneità. L'"impronta leghista", dunque, spiega molto, ma a nostro giudizio non tutto. C'è una correlazione forte fra i voti al Carroccio e l'affluenza, ma c'è anche una differenza strutturale che risale addirittura alle elezioni per l'Assemblea Costituente. La "disomogeneità elettorale" che si riscontra confrontando le percentuali dei partiti nei capoluoghi e nei non capoluoghi è un elemento che in Lombardia e ancor più in Veneto ha contrassegnato l'intera storia repubblicana. Inoltre, non è affatto casuale che le due "capitali regionali" - Milano e Venezia - abbiano fatto registrare la minor percentuale di affluenza non solo rispetto alla media regionale, ma anche in confronto a tutti gli altri capoluoghi della regione. A Milano ha votato il 26,61% contro il 38,34% della media lombarda, il 29,65% della media dei capoluoghi e il 40,07% dei comuni non capoluogo; a Venezia l'affluenza è stata pari al 44,91%, contro il 57,24% della media veneta, il 47,04% della media dei capoluoghi e il 59,74% dei comuni non capoluogo. I due dati, a ben guardarli, si rassomigliano molto: l'affluenza a Milano è stata inferiore dell'11,7% rispetto alla media regionale (Venezia: -12,3%), del 3% sul totale dei capoluoghi (Venezia: -2,1%) e del 13,5% in rapporto ai non capoluoghi (Venezia: -13%). Se le cause della maggiore affluenza veneta sono molteplici e note (essendo state ampiamente analizzate; fra tutti i contributi, è importante ricordare l'articolo di Dario Di Vico per il "Corriere della Sera" del 24 ottobre: "I due Nord alle urne, con Milano lontana dalla provincia") è però molto meno noto che, come dicevamo, c'è un dato che accomuna le due regioni: il comportamento degli elettori di Milano e Venezia. Alle elezioni politiche del 2013, infatti, la difformità di voto fra capoluogo di regione e altri comuni fu pari all'11,5% in Lombardia e al 14,3% in Veneto. Valori molto alti, sia in confronto alla media nazionale (7,6%), sia a quelle di Nord-Ovest (9,77%) e Nord-Est (12,07%). Se si eccettuano alcune realtà molto particolari (Aosta e la Val d'Aosta; Bolzano e il resto della provincia altoatesina) la "dissomiglianza" di Milano e Venezia dal resto delle rispettive regioni è la più elevata d'Italia. Questi valori così alti sono dovuti alla presenza di partiti più radicati nei piccoli centri (la Lega oggi, la Dc nella Prima Repubblica) che nelle metropoli (dove oggi vanno meglio il centrosinistra e in parte Forza Italia, ieri i laici di Pri, Pli e in parte Psdi e la destra missina) ma anche alle grandi differenze sociali, economiche, culturali fra le due "piccole capitali" e il resto delle loro vaste regioni. Nel 1946, la differenza di voto fra capoluoghi di regione e altri comuni era dell'11% a livello nazionale (16,5% Lombardia, 17,1% Veneto); nel 1963, 13,5% (22,2% Lombardia, 21,4% Veneto); nel 1976, 8,7% (9,9% Lombardia, 20,2% Veneto); nel 1994, 10,8% (14,2% Lombardia, 18,6% Veneto). Col mutare dei sistemi di partito, con gli alterni successi dei vecchi e nuovi attori politici, resta la distanza fra centro e periferia, la stessa che si è manifestata nel voto referendario del 22 ottobre. Quel che vale per tutti i capoluoghi di provincia vale anche - a maggior ragione - per Milano e Venezia. Nel primo terzo della storia elettorale repubblicana (1946-1968) la Dc si attestò a Milano per ben tre volte sotto il 30%, per altre due sotto il 34% e solo nel 1948 arrivò al 43,6%; negli altri centri lombardi, invece, oscillò per cinque volte su sei fra il 41 e il 49%, superando il 50% nel 1948 (54,9%). Per contro, Pri, Pli, Psdi, Pci e Msi ebbero a Milano risultati superiori al resto della regione: il Pli giunse a quota 18,6% nel 1963 (6,2% negli altri comuni), il Msi al 5,2-6,3% fra il 1953 e il 1968 (2,8-3,1%), il Pci sempre oltre il 20% (ma altrove solo nel '68 e ovviamente ai tempi del Fronte popolare, restando al 18-19% nel '46, '53, '58, '63). A Venezia e in Veneto accadde la stessa cosa: in città la Dc oscillò fra il 33,3% del 1963 e il 38,3% del 1946 (eccezione: il 50,4% del 1948), mentre nel resto della regione "bianca" il peggior risultato fu il 50,7% del 1946 (per il resto, sempre oltre il 54%, fino al 61,4% del 1948). Così, il Pci che in laguna sfiorava il 20% (1953, 1958) e talvolta lo superava (1963, 1968) in periferia arrancava sotto quota 14% (tranne l’anno del Fronte popolare col Psi: 23,2% nel 1948) superandola solo nel 1968 (15,7%). Un abisso, insomma. La seconda stagione della storia repubblicana non cambiò la tendenza. A Milano, fra il 1972 e il 1992, la Dc superò il 30% (33,2%) solo nelle drammatiche e combattute elezioni del 1976 (quelle del mancato sorpasso ad opera del Pci) ma finì sotto il 20% nel '92 (16,3%, sorpassata dalla Lega Lombarda), mentre nelle altre città restò sopra il 40% per tutti gli anni Settanta, scendendo al 35-36% negli Ottanta e al 25,6% nel 1992. Frattanto, furono soprattutto Pri, Pli, Radicali e Msi a trarre profitto dalla debolezza elettorale della Dc milanese: i repubblicani giunsero al 12,3% nel 1983 (5,8% nel resto della regione), il Pli al 6,2-6,4 (1972, 1976, 1983; altri comuni: massimo il 4% del '72, altrimenti fra il 2 e il 3%), il Pr al 6,9% del 1979 (3,2% in provincia) e il Msi al 10,4% nel 1972 (4,7% negli altri comuni). Non andò molto diversamente in Veneto: la Dc si mantenne oltre il 50% dei voti, in provincia, per tutti gli anni Settanta, scendendo al 44-45 negli Ottanta e al 32,5% nel 1992, ma a Venezia era al 34,6% già nel 1972, per diminuire progressivamente fino al 25,3% del 1983, risalendo un po' nel 1987 (26,8%) per poi finire sotto il 20% (19,1) nel 1992. A trarne vantaggio, oltre ai laici e al Msi, fu il Psi, che nel capoluogo regionale superò il dato degli altri comuni nel 1972 (+2,4%), 1976 (+2,7%), 1979 (+1,7%), 1983 (+2,9%), 1987 (+1,2%) e nel 1992 (+1,8%). Già a partire dalle ultime elezioni della Prima Repubblica ci si accorse che un nuovo soggetto politico si preparava ad assumere il ruolo guida (se non egemone) della Dc nei comuni non capoluogo: la Lega di Bossi (18,1% a Milano, 23,9% nel resto della Lombardia; 12,8% a Venezia, 18,2% nel resto del Veneto). Cambiando i protagonisti, non mutava la "diversità" delle "capitali regionali". Nella Seconda Repubblica (1994-2013) la distanza fra centro e periferia è stata ugualmente marcata. Nonostante l'elezione a sindaco di Milano, nel 1993, del leghista Marco Formentini e le vittorie alle "regionali" degli esponenti del Carroccio Roberto Maroni (2013, Lombardia) e Luca Zaia (2015, Veneto), né il capoluogo lombardo, né quello veneto sono mai stati il "cuore" della Lega, il centro del potere del partito di Bossi. Non è un caso che, commentando in un'intervista al "Corriere della Sera" i dati sull'affluenza al referendum del 22 ottobre, il fondatore del Carroccio abbia affermato che "Milano ha la testa altrove (...) ma fuori c'è un mondo che vuole solo libertà". Il capoluogo lombardo, in effetti, non ha mai dato tanti consensi alla Lega: 18,1% dei voti nel 1992 (23,9% nel resto della regione), 16% nel 1994 (23,2%), 12,1% nel 1996 (27,9%), 4,8% nel 2001 (13,3%), 5,1% nel 2006 (12,7%), 12,3% nel 2008 (23%), 6,3% nel 2013 (13,9%). Lo stesso discorso vale per Venezia e il Veneto, dove la Lega-Liga ha avuto nel capoluogo il 12,8% nel 1992 (18,2% nel resto della regione), il 14,2% nel 1994 (22,2%), il 17,6% nel 1996 (30,1%), il 4% nel 2001 (10,7%), il 4,1% nel 2006 (11,5%), il 13,8% nel 2008 (27,8%), il 4,6% nel 2013 (10,9%). Grandi differenze, come ai tempi dell'immenso "retroterra bianco" dominato dalla Dc. Le "piccole capitali", invece, hanno premiato altri soggetti politici, come il Pds-Ds e poi l'Ulivo-Pd, Forza Italia e AN, penalizzando invece i centristi dei due poli. In generale l'orientamento di Milano e Venezia (nonostante la lunga stagione di governo cittadino della CDL nella metropoli lombarda) ha dato mediamente al centrosinistra fra il 4% e l'8% dei voti in più rispetto al resto della regione in Lombardia (1994-2013) e fra il 13 e il 17% dei voti in più a Venezia (governata fino al 2015 dall'ex Unione) in confronto alle altre città del Veneto. Nella distanza fra centro e periferia, insomma, si può leggere anche storicamente l'affluenza del 22 ottobre: un voto nel quale la seconda ha trainato il primo, nell'ambito di una convivenza fra comportamenti elettorali diversi che ormai connota le due "piccole capitali" e le rispettive regioni da ben 71 anni.