Riflessioni sulla riforma elettorale

La nuova proposta di riforma elettorale per Camera e Senato torna ad assegnare una certa quota di seggi (circa il 37%, contro il 75% del Mattarellum) in collegi uninominali col plurality system, in ciascuno dei quali il candidato che arriva al primo posto è eletto. Non si tratta di un ritorno al maggioritario, perchè il meccanismo è di impianto proporzionale: il fatto che non ci sia scorporo dei voti utilizzati dai vincitori nei collegi uninominali è l'indizio che il fine dell'introduzione di questa quota di posti assegnata col "sistema inglese" è solo quello di dare un piccolo premio ai partiti che riescono a coalizzarsi e ad imporsi in un certo numero di realtà locali. Il nuovo Rosatellum non è il sistema tedesco, dunque (puramente proporzionale per chi supera lo sbarramento del 5%) e neppure il Mattarellum (il difetto del quale, a nostro modesto parere, era proprio la quota proporzionale, che "annacquava" l'effetto della competizione maggioritaria uninominale). È, più semplicemente, un modo per introdurre l'apparentamento di partiti (per vincere nei collegi) e nel contempo consentire la competizione fra le liste (per il 63% dei seggi). Un compromesso per superare il blocco delle posizioni dei partiti circa l'attribuzione di un premio di maggioranza: il Pd voleva continuare ad assegnarlo al primo partito, mentre il centrodestra lo voleva per la coalizione. La soluzione ha comportato un doppio cedimento: niente premio ma una quota di seggi assegnati col "sistema inglese"; nel contempo, niente coalizione per il premio nazionale ma una corsa "semilibera" dei partiti (legati da un accordo - se lo desiderano - nell'uninominale, ma liberi di fatto nel proporzionale). I risultati saranno probabilmente poco differenti rispetto a Italicum e Consultellum, se non per la probabilissima sovrarappresentazione della Lega e qualche teorica difficoltà in più per il M5S. Se con le leggi vigenti abbiamo un modo per legarsi (le coalizioni in Senato) e uno per liberarsi (la corsa solitaria alla Camera), col nuovo sistema il "semi accordo" sarà possibile in entrambi i rami del Parlamento, con un meccanismo decisamente più omogeneo rispetto ad oggi. Che questa proposta di riforma ci consegni un meccanismo non "a maggioranza certa" è scontato: del resto, soltanto il Porcellum (e solo a Montecitorio) è riuscito nel 2013 nel "miracolo" di assegnare ad una coalizione del 29% dei voti il 54% dei parlamentari, con un premio di circa 150 seggi. Un "miracolo" troppo eclatante per non essere dichiarato poi incostituzionale. Se - nonostante la presenza dei collegi uninominali e del plurality system per il 37% dei posti - gli esiti del Rosatellum non sembrano spostare quote consistenti di seggi a favore di uno dei tre contendenti principali (Pd-Ap; Fi-Lega-FdI; M5S) a cosa si deve la necessità della proposta? In primo luogo, c'era e c'è da risolvere la questione dell'armonizzazione dei sistemi di Camera e Senato. Non è necessario che siano identici: fra il 1948 e il 1992 non lo sono stati del tutto (con la ripartizione regionale e il d'Hondt al Senato, contro il quoziente della Camera; nel 1953, inoltre, l’effimera “legge truffa” assegnava un premio di maggioranza alla Camera ma non lo estendeva al Senato) e neppure fra il 1994 e il 2001 (Mattarellum: la seconda scheda che c'era per Montecitorio e non per Palazzo Madama; lo scorporo effettuato in due modi diversi) e dal 2006 al 2017 (prima col Porcellum - premio nazionale alla Camera e regionale al Senato - poi con Italicum - premio solo alla Camera - e Consultellum Senato - con soglie diverse di accesso rispetto a Montecitorio). La proposta li rende pressochè uguali, però ovviamente non può far nulla circa l'ostacolo maggiore: per la Camera votano anche gli italiani fra i 18 e i 25 anni non compiuti, mentre per il Senato votano solo i cittadini dai 25 anni in su. Poichè nella fascia d'età 18-24 il comportamento elettorale è diverso soprattutto rispetto ai votanti ultraquarantenni, una differenza resta (e si vedrà anche la prossima volta, al momento dello spoglio delle schede). In secondo luogo, occorreva che il Parlamento dimostrasse di poter intervenire su una materia sulla quale prima la Consulta, poi il Quirinale, avevano sollecitato un'iniziativa. Quella attuale forse è tardiva e probabilmente poco funzionale, ma è una risposta politica, condivisibile o meno. In terzo luogo, la necessità di rendere più ampio possibile lo schieramento favorevole alla riforma ha spinto verso la soluzione compromissoria che non assegna premi, introduce una quota uninominale maggioritaria molto modesta, ma sembra avere la valenza politica di permettere la ricomposizione del centrodestra (che forse può servire ai poli della Seconda Repubblica per arginare il M5S almeno al Nord) e di "limare" (riducendo la quota di seggi proporzionali) la rappresentanza dei soggetti politici a sinistra del Pd per spingerli ad entrare in coalizione col principale partito del centrosinistra. In quarto luogo, come si diceva, le coalizioni servono per i collegi e per una piccola quota plurality, ma dopo il voto può prevalere la "logica del 63%", cioè quella dell'individualità di ciascun partito. Si potranno avere, dunque, coalizioni di governo formate da partiti di "poli" diversi (Pd-FI, per esempio, oppure Lega-M5S) esattamente come accadrebbe con i sistemi attualmente vigenti. In sintesi, a nostro modesto parere, le probabilità che - grazie alla riforma in discussione - nella prossima legislatura, a seguito del voto della primavera 2018, si crei una coalizione di governo maggioritaria in entrambe le camere, possono aumentare un po’, ma restano molto basse. L'unica utilità che può avere questa riforma è mostrarci chi vincerebbe e chi sarebbe altamente competitivo nei collegi se avessimo solo la parte uninominale: una sorta di gigantesca "simulazione sul campo" che potrebbe tornare utile qualora si volesse adottare un meccanismo davvero maggioritario di collegio a uno o (meglio, molto meglio) a due turni.
di Luca Tentoni
di Michele Iscra *