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Una politica che si prepara allo scontro

Paolo Pombeni - 27.08.2015
Matteo Renzi al meeting di Rimini

Dicevano i latini, si vis pacem, para bellum, se vuoi la pace prepara la guerra: sembra essere questo il motto se non di tutte, di gran parte delle forze politiche italiane. La guerra in questo caso sarebbero le elezioni anticipate; la pace il congelamento della situazione attuale senza vincitori né vinti, se vista dalle opposizioni; una netta affermazione di Renzi se considerata dal punto di vista del governo.

La preparazione della guerra è stata avviata da qualche tempo dalle opposizioni, inclusa quella interna al PD, sia pure in forma più o meno aggressiva a seconda dei casi. La strategia ruota intorno alla presunzione di essere in grado di trasformare la battaglia sulla riforma del senato nel “Vietnam parlamentare” a cui si è alluso in passato. Il complicarsi della situazione di contorno per via del drammatizzarsi della vicenda relativa all’immigrazione e in conseguenza della crisi finanziaria cinese sembra interpretata dalle opposizioni come un aiuto insperato in una battaglia che scalda poco i cuori della gente.

Renzi era infastidito dalla piega presa dagli avvenimenti, ma tutto sommato assente, avendo delegato la polemica ai suoi luogotenenti. Adesso è tornato direttamente in campo, annunciando una campagna in grande stile, destinata a toccare, almeno a quanto si lascia trapelare, quasi tutta l’Italia. L’obiettivo è quello di prendere di petto la sfida che viene lanciata alla sua leadership rendendo chiaro che è deciso a portare la questione davanti agli elettori, snobbando qualsiasi suggerimento per la ricerca di compromessi coi suoi oppositori.

La guerra, se ci sarà, perché è tutt’altro che certo, potrà avere tre grandi appuntamenti: le elezioni amministrative nella primavera del prossimo anno, un contemporaneo referendum sulle riforme istituzionali, in ultima istanza elezioni politiche a seguito dello scioglimento della legislatura.

La prima e l’ultima vicenda sono scontri elettorali che coinvolgono i partiti in quanto tali; la seconda è un referendum diretto sull’attuale Presidente del Consiglio. Quest’ultima opzione è quella che in realtà tutti gli avversari di Renzi vorrebbero evitare, perché almeno quelli con qualche senso della realtà sanno che mobilitare la gente contro la riforma del senato sarà un’impresa piuttosto ardua.

Le due prove elettorali, la prima sicura, la seconda molto meno, sono invece quelle in cui ci si dovrà misurare con la trasformazione del panorama politico che è avvenuta in questi ultimi due anni. Innanzitutto infatti ci sarà l’incognita di cosa succede nella miriade di partitini che si sono formati. Chi osserva la politica, avrà notato le fibrillazioni nel partito di Alfano che sono sintomatiche di quanto avviene in tutta l’area. Ci si chiede infatti che spazio possa esserci per queste piccole formazioni, sia a livello locale, strette come sono fra Salvini, Grillo, e la macchina renziana, sia, ancor peggio, a livello nazionale quando si dovrà votare con l’Italicum.

Qui ci sia consentita una piccola digressione. Sembra che solo i politici abbiano capito cosa significa il premio di maggioranza alla “lista”. Infatti non è automaticamente il premio ad un solo partito vincitore, ma esattamente alla possibilità che esso avrà di vincere se riesce ad includere nella sua “lista” persone o meccanismi che gli facciano raggiungere la vittoria. Significa, in pratica, che tutti per allargare il proprio consenso ricorreranno all’inclusione di gruppi minori, ma soprattutto di soggetti che possano essere presentati come la mitica società civile alternativa alla politica politicante. Berlusconi sta già lavorando in questa direzione, ma per la classe politica attuale significa meno (molti meno) posti a disposizione.

In queste condizioni a Renzi non conviene certo perder tempo a ricercare accordicchi con questo o quello, dopo i quali sarebbe solo un leader dimezzato. Giocandosi la partita fino in fondo, costringe i suoi avversari a scendere sul suo terreno ed a scontrarsi direttamente con lui, cosa che va benissimo a Salvini e Grillo, che non potranno vincere ma possono compattare determinati settori, ma che non va affatto bene agli altri.

La ragione è semplice: Renzi ha una sua proposta politica, mentre gli altri non ce l’hanno. Non è un caso che la sua campagna parta dalle proposte diciamo così concrete (rimodulazione delle tasse, nuova politica del lavoro, riforma della pubblica amministrazione, ecc.) per arrivare solo poi al tema della riforma del senato, il rifiuto della quale finisce per apparire come lo strumento per bloccare, per calcolo o per stupidità, le altre riforme che interessano alla gente e ai ceti dirigenti.

I commenti dei leader di Comunione e Liberazione, sino a ieri alleati non di secondo piano del berlusconismo, sono sintomatici: in sostanza hanno detto che Renzi sarà anche criticabile, ma rispetto ai suoi competitori non ci sono paragoni (e che il centrodestra non è più il loro riferimento).

In un contesto del genere è arduo prevedere cosa succederà. Il premier ritiene, a stare a quanto filtra, che alla fine i suoi oppositori che hanno il coraggio di far saltare la legislatura non saranno abbastanza per raggiungere quel fine. Molti osservatori ritengono però che alla fine, considerandosi comunque perduti in uno scenario futuro, questi oppositori decideranno di giocare il tutto per tutto accettando il risiko dello scioglimento delle Camere.