Passata la tempesta
Anche se scriviamo questo articolo prima del fatidico 4 dicembre, esso sarà letto anche dopo, quando l’esito del voto referendario sarà noto e si inizierà, speriamolo, a ragionare su come disintossicare il paese dalle droghe e dai veleni che gli sono stati iniettati in questi lunghi mesi di scontri che definire “politici” sarebbe troppo generoso.
Ci permettiamo di richiamare l’attenzione sulle precondizioni che hanno indebolito il sistema italiano rendendolo sin troppo recettivo alla seduzione delle droghe messe in libera vendita in occasione del referendum. Temiamo che senza una presa di coscienza di queste debolezze strutturali non ci sarà ricostruzione possibile: e quella ricostruzione sarà necessaria qualunque sia l’esito della battaglia.
Va di moda cavarsela sempre con attacchi al “populismo” come se si trattasse di un virus importato dall’esterno. Forse è il caso di ricordare che la delegittimazione del nostro sistema ha una storia lunga, costantemente tenuta viva da un complesso di forze culturali che hanno costruito gli stereotipi su cui è attecchito quel complesso di richiami di pancia il cui successo comincia ad impensierire, per fortuna, chi ama ancora ragionare di politica.
Cominciamo dalla questione della “casta”. Dipingere la classe politica come un complesso di corrotti e intrallazzatori non è una invenzione dei grillini. E’ quanto si è costantemente fatto dal tramonto della cosiddetta prima repubblica in avanti. Le intemerate ai tempi di Tangentopoli, i successi di personaggi come Di Pietro, le prediche sulla “diversità” dei nostri e sulla natura luciferina degli altri, sono negli archivi della storia. Perché meravigliarsi se una generazione un po’ più giovane le ha trasformate in luoghi comuni ad alta presa? Cercare il successo sfruttando i luoghi comuni è una cattiva abitudine politica che ha consolidate tradizione: magari ci si divide fra chi sostiene che i comunisti mangiano i bambini e chi che i capitalisti fanno morire di fame gli operai, ma il modo di operare è lo stesso. E alla fine la sintesi è che si prendono per buone entrambe le cose, per cui la riforma elettorale la vogliono i comunisti che mirano alla dittatura e la detta JP Morgan in nome degli interessi del capitale.
Non stiamo forzando il ragionamento. Prendiamo un altro curioso aspetto della campagna di veleni che ha inquinato la battaglia referendaria: l’accusa a Renzi di avere personalizzato la questione mettendo in campo la sua permanenza nel ruolo di presidente del consiglio. Ora qualcuno dovrebbe ricordare che veniamo da anni in cui si è scritto e urlato che il problema italiano era che i nostri politici rimangono sempre al loro posto qualunque cosa succeda. Si sono magnificati gli esempi stranieri di leader che quando perdono si ritirano dalla scena politica. Renzi si è semplicemente illuso che potesse venire ascritto a suo merito l’aver dichiarato che si sarebbe comportato come prescrivevano le polemiche sopra ricordate: ho proposto al paese una svolta, se il paese la boccia traggo le conseguenze e me ne vado.
Apriti cielo! Questa è diventata arroganza del potere, limitazione alla libertà di scelta dei cittadini che potrebbero tenersi una riforma secondo i critici cattiva pur di evitare l’instabilità del sistema politico. Quella non deriverebbe dal fatto che gli oppositori non hanno una strategia comune capace di esprimere un leader alternativo con sufficiente consenso parlamentare? Bazzecole, non stiamo a sottilizzare …
Veniamo alla questione incredibile della difesa delle possibilità di scelta elettorale dei cittadini. Nessun serio analista può raccontarsi la favola che gli elettori potessero determinare in qualche modo le candidature scelte all’interno dei partiti: quelle scelte sono sempre state saldamente in mano ai rispettivi gruppi dirigenti, che potevano magari confezionarle con un aspetto apparentemente più aperto grazie a primarie, scelte via internet e roba simile. Raramente con risultati che sconvolgevano quanto i gruppi dirigenti avevano deciso. Ebbene oggi è un profluvio di dichiarazioni che parlano di “esproprio” del diritto di scelta della rappresentanza da parte dei cittadini nel caso di riforme del sistema costituzionale e delle leggi elettorali, come se quanto vigente garantisse ferramente quei diritti. Non avevamo scritto che la disaffezione elettorale (astensionismo) veniva dalla ripulsa dei cittadini per sistemi in cui non credevano più? E quella crisi non era derivata dal sistema esistente, che si vorrebbe confermare?
Si potrebbe continuare a lungo nell’elencazione delle componenti dell’orgia di qualunquismo a cui il paese è stato sottoposto. Anche dai fautori del cambiamento, non ce lo nascondiamo, i quali hanno altrettanto usato i richiami ai sentimenti anticasta, l’inno al cambiamento per il cambiamento, l’immagine della riduzione delle “poltrone” e il taglio dei “costi della politica” e via di questo passo.
La necessaria ricostruzione del nostro sistema politico, che si renderà necessaria sia che la riforma sia approvata, sia che venga rigettata, non potrà essere avviata senza disintossicare il paese dai veleni del qualunquismo che mischia tutto, il jobs act e la riforma del senato, la buona scuola e la revisione del Titolo Quinto, in una marmellata che rende impossibile qualsiasi serio confronto prima ancora di qualsiasi possibile intesa in nome di quel “bene comune” che era un concetto importante e che è stato ridotto ad uno slogan per difendere le aziende pubbliche idriche.
di Paolo Pombeni
di Giovanni Bernardini
di Loris Zanatta *