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Appunti sul voto di domenica scorsa
È stato già scritto molto - quasi tutto - sul voto del 26 gennaio in Emilia-Romagna e Calabria. Ci limitiamo dunque, in questa sede, a sottolineare alcuni aspetti particolarmente significativi. Il primo è che il voto regionale non è necessariamente l'occasione per astenersi. Il fatto che nello stesso giorno in Calabria abbia votato il 42,5% (ricalcolato escludendo gli italiani all'estero: 52,3%) e in Emilia-Romagna il 67,7% (71,3%) non è affatto dovuto alla tradizione che vede il Sud più astensionista del Nord. Nel 2014, in Emilia-Romagna si votò meno che in Calabria. La differenza sta nelle motivazioni che spingono gli elettori a recarsi alle urne. Mentre per le politiche c'è un costante interesse generale, per altri tipi di consultazione bisogna tenere conto di tre fattori: 1) c'è una quota di elettori che vota sempre, indipendentemente da tutto; 2) c'è una fascia che vota se la competizione è in bilico o comunque aperta, cioè se il proprio voto conta e può decidere la gara; 3) se ci sono motivazioni mobilitanti (la nazionalizzazione della campagna, per esempio). In Calabria l'esito era scontato: lo si capiva leggendo delle vicende che avevano preceduto la presentazione delle candidature e l'evoluzione politica locale. Quindi, complice il fatto che la partita nazionale si giocava altrove e che la Calabria è una regione che "si può leggi tutto
L'ennesima riforma elettorale
Il dibattito in corso sulla riforma della legge elettorale ripropone, come sempre, un dilemma: è opportuno scegliere una soluzione che serva a risolvere problemi politici contingenti oppure puntare - a costo di rimetterci - su un'impostazione che guardi di più al medio-lungo periodo (come il sistema francese, per esempio)? La proposta della maggioranza, che non può essere definita "alla tedesca" solo perché ha una soglia di sbarramento al 5% (il sistema per il Bundestag è ben più complesso e di certo meglio costruito di quello oggi in discussione in Italia) serve per impedire a Salvini e Meloni di vincere da soli le prossime elezioni politiche: lo scopo principale è questo, inutile negarlo. Così come la controproposta della Lega (il "Mattarellum") è un'opzione utile per chi l'ha formulata, che può essere facilmente contrastata con gli argomenti di chi - proprio nel centrodestra del 2005 - sostituì la legge che porta la firma dell'attuale Capo dello Stato con un meccanismo (il "Porcellum") fatto apposta per impedire a Prodi di vincere le elezioni del 2006. Se il dibattito sulla riforma delle leggi elettorali si deve sempre svolgere all'insegna della convenienza del momento, non ci si può meravigliare del fatto che il legislatore italiano ha prodotto, dal 1994 in poi, quattro meccanismi diversi (senza contare quelli leggi tutto
Manca davvero poco all’alba?
Tutti aspettano l’alba del 27 gennaio quando si conosceranno finalmente i responsi delle urne di Emilia Romagna e Calabria. La si vive come l’alba di un nuovo giorno, discutendo solo se lo sarà per la destra o per la sinistra. Se si invita a considerare con un po’ di freddezza quel che potranno dirci quei risultati, si passa o per furbini che non vogliono rischiare smentite o per cinici i quali pensano che comunque vada nulla cambia mai.
In realtà la situazione è davvero complicata. Da un lato questa lunga e defatigante campagna elettorale che si trascina da agosto ha mutato in maniera irreversibile il quadro politico italiano. Dall’altro ha finito per mettere in ombra i grandi problemi che il paese ha davanti, diffondendo l’illusione che prima si dovesse stabilire chi poteva detenere l’egemonia della politica italiana rinviando a dopo i conti con le nostre difficoltà.
Il mutamento del quadro politico ha visto l’affermarsi di una demagogia di destra che sembra avere il sostegno del 40% circa dell’elettorato. E’ un fatto nuovo. Berlusconi, con tutti i suoi numerosi difetti, non era espressione di questo tipo di cultura, né lo era Gianfranco Fini. Il loro tentativo di costruire un partito saldamente conservatore è miseramente fallito.
Il nuovo partito nuovo
La recente proposta di Zingaretti di fare un nuovo congresso per dar vita a un nuovo partito (forse anche nel nome) inclusivo, aperto, plurale che guarda alle Sardine, agli ambientalisti, ai sindaci e alla società civile organizzata ha suscitato, come era inevitabile, diverse reazioni.
In realtà per reagire con un certo distacco analitico sarebbero necessarie molte più informazioni su quanto ha in mente Zingaretti perché, quello che è certo è che non basta dichiararsi aperti e plurali perché i cittadini accorrano in massa ad iscriversi e a militare nel nuovo partito. Non solo. Non andrebbe dimenticato che il PD di Renzi era talmente aperto, inclusivo e plurale che ognuno (ogni corrente) faceva e diceva quello che voleva e votava anche come gli pareva a prescindere dalle indicazioni di partito. Una continua lotta fratricida tra correnti che ha ridotto il consenso elettorale e che nel giro di pochi mesi ha portato a tre scissioni: Bersani, Renzi, Calenda.
C’è quindi da augurarsi che Zingaretti abbia in mente qualcosa di diverso tanto dal semplice appello ecumenico quanto dalla riproduzione del modello precedente.
Ma cosa vuol dire oggi concretamente un partito aperto, inclusivo, plurale? È un partito che sa rappresentare meglio di quanto non abbia fatto negli
Tra color che son sospesi
Tutto è sospeso nella politica italiana, sempre in attesa di qualcosa: il pronunciamento della Corte Costituzionale sul referendum Calderoli, quello della giunta per le autorizzazioni del Senato sul caso Salvini-Diciotti, quello che uscirà dalle urne di Emilia Romagna e Calabria il prossimo 26 gennaio. Nel frattempo si annunciano grandi progetti, ma molto vaghi, senza avere il coraggio di affrontare il vero nodo della debolezza attuale: la crisi dei Cinque Stelle che getta una grande ambiguità su tutta la situazione.
Infatti è quello il fattore che da un lato impedisce ai ministri pentastellati di lasciar perdere le loro bandierine logore (prescrizione, punizione dei Benetton, ecc.) e dall’altro frena gli alleati al governo (soprattutto il PD e lo stesso Conte) dal mettere Di Maio e soci di fronte alle loro responsabilità. La speranza, vedremo se fondata, è che i risultati elettorali di fine gennaio risolvano da soli il rebus.
In che modo? La risposta è più semplice di quel che si pensi. Se davvero, come sembra, M5S avrà un cattivo risultato in quelle urne, ci sarà un ridimensionamento automatico del peso dei suoi ministri. Potrebbe anche darsi che a seguito di quel risultato la rappresentanza parlamentare pentastellata conoscesse abbandoni e cambi di casacca, mutando così anche la composizione della maggioranza di governo. leggi tutto
Libertà "e" partecipazione
Ci sono definizioni che diventano presto obsolete perché non sanno più descrivere il loro oggetto o perché non corrispondono più ad un’immagine condivisa e a noi contemporanea.
Ce ne sono poi alcune che reggono alle mode e mantengono un aggancio con la realtà e altre ancora che diventano veri e propri paradigmi di pensiero, forse ben oltre il loro senso originario, anche quando le parole si allontanano dalla loro storia o dalla Storia sono poi a loro volta smentite.
Se queste sovrapposizioni ma anche se questi sdoppiamenti e abbandoni si riferiscono ai valori che sovrintendono alle nostre azioni può persino accadere che un’intera generazione ne venga condizionata.
Stiamo parlando di una canzone: ma quella definizione di Giorgio Gaber sulla libertà come partecipazione è diventata nel tempo una vera e propria icona, un modello ideale ma anche esistenziale a cui si è ispirata una lunga stagione di comportamenti sociali e persino di militanza politica.
Correvano gli anni della contestazione, della socializzazione, dei collettivi, della condivisione, della mobilitazione, delle lotte di massa.
Anni in cui la piazza non era più l’agorà, il luogo degli incontri tra persone e degli scambi di idee e di beni, la sede deputata ai mercati. leggi tutto
La piccola Italia nella tempesta mediorientale
L’Europa non sta facendo una gran figura nella crisi mediorientale, acuitasi dopo la decisione di Erdogan di mandare truppe turche direttamente a sostegno di Tripoli e dopo quella di Trump di uccidere il generale dei pasdaran iraniani Qassem Soleimani. L’Italia però la sta facendo peggiore, non tanto per l’incapacità di avere un ruolo in questa complicatissima contingenza (inutile chiedere l’impossibile), ma per l’incapacità di capire che a fronte dell’evoluzione nel teatro mediorientale deve porsi con serietà il problema di rafforzare il prestigio del proprio sistema politico.
È una domanda da fare senz’altro alla coalizione che regge il Conte 2, ma dalla quale non può essere esentata l’opposizione, perché il “sistema” dovrebbe essere qualcosa che interessa tutti. Purtroppo il tema non viene minimamente affrontato. Non bastano certo le generiche prese di posizione del premier o quelle ancor più generiche del ministro degli esteri: sono frasi di vuoto buonismo che potrebbe esprimere chiunque. Quanto all’opposizione siamo poco distanti: al massimo c’è il solito Salvini che corre a schierarsi con Trump, tanto per fare un altro po’ di campagna elettorale.
La compagine governativa sembra concentrata soltanto sui suoi problemi interni, peraltro senza alcuna capacità di affrontarli seriamente. La faccenda della prescrizione naviga sempre nella nebbia.
Dopo la tempesta
Il messaggio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella è stato variamente interpretato dai leader (a ciascuno dei quali, come sempre, è parso opportuno valorizzare le frasi e i passaggi più utili per la propria parte politica e per i propri simpatizzanti). A distanza di qualche giorno, invece, ci sembra opportuno sottolineare la forza di uno dei temi oggetto del discorso. Il filo conduttore del Quirinale, esplicitato persino nell'ambientazione (col Presidente al centro di uno spazio ampio, come l'Italia nel mondo) è il rifiuto dell'isolamento, della retrotopia, del decennio di una politica fatta di odio e barriere. La contrapposizione fra – da una parte - il civismo e il rispetto delle esigenze degli altri e – dall’altra - "aggressività, prepotenze, meschinità, lacerazioni del tessuto sociale", è la chiave di una svolta di alta politica che il Quirinale intende suggerire al Paese. La guerra civile degli anni Dieci, costruita sulla crisi economica, sociale e culturale, sull'uso perverso dei social network per lucrare consensi avvelenando l'animo degli italiani e cercando di uccidere il senso della convivenza, deve finire per tutti. Per troppi anni una certa politica ha fatto di tutto per contrastare ciò che si legge su una sedia donata a Mattarella da un'associazione di disabili: "quando perdiamo il diritto di leggi tutto
Un decennio di mobilità elettorale
Alla fine di un decennio che sul piano elettorale ha visto spostamenti di voti frequenti e numerosi (con la nascita e l'ottimo risultato del M5s alle politiche del 2013, l'affermazione del Pd alle europee 2014, la vittoria del M5s alle politiche del 2018, il primo posto della Lega alle europee del 2019) e il susseguirsi di leadership prima vincenti, poi improvvisamente declinanti, possiamo provare a fare il punto sulla volatilità potenziale delle scelte di voto degli italiani. C'è un ottimo libro del Mulino, a cura di Hans Schadee, Paolo Segatti, Cristiano Vezzoni ("L'apocalisse della democrazia italiana - Alle origini di due terremoti elettorali", pp. 176, 2019) che spiega come "la motivazione decisiva della scelta di tantissimi di cambiare voto sia da ricercare nella caduta verticale di reputazione dell’intero ceto politico tradizionale; una crisi di autorità, serpeggiante da ben prima della Grande Recessione e alimentata dalla diffusa convinzione che entrambi i partiti-cardine del sistema politico della Seconda Repubblica fossero incapaci di attrezzare il paese alle sfide epocali da fronteggiare". Nel volume si passano in rassegna i temi che possono aver influenzato, con la loro maggiore o minore salienza, le scelte di voto: ci sono molte sorprese, che il lettore scoprirà. Ma torniamo a noi, al filo logico di questo decennio. leggi tutto
La lezione inglese
Ci si interroga sul significato più generale che possiamo dare a quanto si è verificato nella tornata elettorale in Gran Bretagna. Iniziamo col dire che, complice il fatto che di problemi a casa nostra ne abbiamo in dose sufficiente, questa volta di interpretazioni degli eventi britannici che miravano a dare spiegazioni in sintonia con i desiderata italiani ce ne sono state poche. La nostra destra fa fatica ad assimilarsi al pur scoppiettante Boris Johnson. Va tenuto presente che appiattirsi su di lui avrebbe significato esprimersi in senso anti europeista, cosa che, almeno formalmente, nessuna delle tre forze politiche che la compongono vuole fare (la tesi ufficiale non è per l’uscita dalla UE, ma per la sua “radicale riforma”). Così non si è di fatto andati oltre un generico apprezzamento per il prevalere di un vento di destra.
L’incerto e confuso centro nostrano non aveva modo di trarre fasti auspici: i liberali britannici, che si poteva presumere avrebbero profittato della svolta a sinistra del Labour non hanno ottenuto da essa la spinta per un significativo salto di posizione.
La sinistra che aveva promosso Jeremy Corbyn ad idolo dei nuovi fasti del para-marxismo del XXI secolo ha dovuto registrare che aveva scambiato i suoi sogni leggi tutto