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I dilemmi della politica: polarizzazione o centro vitale?
Di fronte a quanto stiamo assistendo in questi giorni viene in mente una vecchia diatriba che ha diviso per decenni gli studiosi di politica, specie italiani: se la miglior organizzazione di un sistema politico sia quella che vede contrapporsi due fronti netti e distinti, la destra e la sinistra, o se sia quella che ne affida la guida ad un centro “vitale” in quanto capace di comporre il buono che c’è da una parte e dall’altra.
Detta così la teoria è un poco schematica, ma riflette l’andamento del dibattito pubblico nel nostro paese dopo la fine della cosiddetta repubblica dei partiti. Quando quella era in auge molti studiosi si lamentavano che da noi non ci fosse il bipolarismo che allora si pensava caratterizzare le grandi democrazie: Gran Bretagna e USA in primis, ma, sia pure con qualche sbavatura, anche la Germania Federale. I pochi che non accettavano questa impostazione badavano a dire che al contrario da noi la forza del sistema veniva da un grande centro, nella fattispecie la DC, che era, per usare una famosa definizione di De Gasperi, un partito di centro che guardava a sinistra (lui a destra, lo si dimentica, non voleva guardare). leggi tutto
Perché la Meloni può durare
Il governo in carica ha alcuni punti di forza innegabili: la mancanza di una coalizione alternativa capace di battere la destra nelle urne (oggi, a meno di miracoli, mettere insieme Pd, M5s e Terzo polo non è difficile, è assurdo); il declino inesorabile di Forza Italia legato strettamente all'età e alle fortune elettorali tramontate del suo leader; il ritorno della Lega a percentuali di altri tempi, pur presentandosi adesso in tutto il Paese anziché nella sola "Padania"; l'inconsistenza di soluzioni moderate attrattive (il Terzo polo è l'ennesima dimostrazione che nella Seconda Repubblica non c'è spazio per esperimenti neocentristi che abbiano una consistenza elettorale e parlamentare appena apprezzabile); il potere sostanzialmente assoluto che Giorgia Meloni esercita rispettivamente sul suo partito, che FdI esercita su alleati numericamente, elettoralmente e politicamente subordinati, che il governo esercita sulle Camere (in un sistema sostanzialmente monocamerale, nel quale ciò che è approvato in un ramo è "fotocopiato" dall'altro ramo, sostanzialmente senza modifiche); un blocco sociale e politico che si riconosce nella leadership del (della) presidente del Consiglio; la non ostilità dell'Unione europea verso l'Esecutivo (ricambiata con un tasso di europeismo un po’ di convenienza, ma molto distante dall'euroscetticismo che FdI coltivava un tempo); il sostegno del blocco atlantico (nel quale l'Italia leggi tutto
La conoscenza affidata ai PM?
È accesa la polemica sull’indagine avviata dalla procura di Bergamo circa la gestione del Covid in quell’area. Siamo davanti ad una situazione curiosa. Da un lato quasi tutti a dire che non tocca ai magistrati la ricerca della verità “storica”, ma solo quella dei reati perseguibili. Dal lato opposto tutti i media che approfittano di quel che hanno scoperto gli inquirenti per ricostruire ciò che accadde in quei terribili giorni. Val la pena di farci una riflessione.
Che non sia compito dei magistrati far luce sulle “verità” dei comportamenti quando questi non si configurino come reati è abbastanza pacifico. Diciamo che una parte almeno della magistratura inquirente e anche di quella giudicante non è esattamente di questa opinione e si lascia volentieri andare, vuoi nei rapporti con i media, vuoi anche nel motivare le sue azioni negli atti formali a rivendicare il ruolo di supremi censori dei mali sociali. Non è un bel vedere né è una buona pratica: si mette a rischio il ruolo della magistratura come “potere neutro” rispetto al governo e al parlamento, ma anche rispetto ai cittadini. Farsi schermo della possibilità di intravvedere “reati” nei vari comportamenti non è poi particolarmente difficile con leggi che non possono dettagliare bene i confini delle leggi tutto
Il declino della politica resiliente
Recentemente due autorevoli e accreditati osservatori come Sabino Cassese e Giuseppe De Rita, in altrettante interviste, hanno avuto modo di puntualizzare alcune evidenze critiche della politica, intesa come arte del buon governo e vista nell’ottica delle relazioni tra istituzioni e società civile.
Il giudice emerito della Corte Costituzionale, ex Ministro e fondatore di IRPA (istituto Ricerche Pubblica Amministrazione) di cui dirige il Magazine si è in particolare soffermato sulla pratica dello ‘spoils system’ evidenziandone gli abusi e le degenerazioni. Di derivazione anglosassone – letteralmente ‘sistema delle spoglie’ – esso consiste nella consuetudine ormai consolidata di avvicendare l’alta burocrazia e la dirigenza dello Stato e degli Enti pubblici in occasione del subentro di un nuovo Governo: se pensiamo che ce ne sono stati 68 in 76 anni di Repubblica possiamo avere un quadro approssimativo della abnorme quantità di nomine apicali e incarichi di vertice, in nome di una corrispondenza di intenti, di deleghe di funzioni e di rassicurante fedeltà dell’azione burocratica agli indirizzi di governo. Cassese valuta con severità questa prassi sotto diversi profili di considerazione. Partendo proprio dal principio di fedeltà che i nominati e chiamati a ricoprire incarichi di responsabilità (sempre ben remunerati) dovrebbero riservare alla politica di governo.
Sottolineando come – invece – dovrebbe prevalere
PD: la vittoria del massimalismo intellettuale
Di fronte alla vittoria di Elly Schlein su Stefano Bonaccini la prima riflessione che viene d’istinto è che ha vinto “occupy pd”. Era la scimmiottatura di “occupy Wall Street” ed era stata messa in campo per protestare contro la bocciatura della candidatura di Prodi alla presidenza della repubblica da parte di una componente del partito che l’aveva approvata all’unanimità (i 101 traditori nel segreto dell’urna). L’attuale segretaria del PD faceva parte di quella manifestazione e grazie ad essa era stata subito assorbita da un partito che era alla ricerca di raccogliere nel suo seno i fermenti barricadieri. Che alla (relativamente) lunga quelli sarebbero riusciti ad occuparlo per davvero allora non ci pensava nessuno.
Eppure quel che è successo è esattamente questo: le sceneggiate di moda, le parole d’ordine delle narrazioni dei nuovi predicatori della politica televisiva, la frustrazione degli intellettuali che per sentirsi interpreti del futuro se lo devono inventare a loro uso e consumo, hanno portato a sconvolgere le normali dinamiche dei partiti politici, cioè la loro capacità di esprimere leadership producendola nel crogiolo del lavoro concreto dei propri militanti e simpatizzanti.
La vittoria di Schlein è stata netta, per quanto non strabordante, ma certo non è venuta da quel mondo dei “margini” a cui leggi tutto
Il boom delle dimissioni dal lavoro
I dati forniti dalle comunicazioni obbligatorie trimestrali del Ministero del Lavoro offrono uno spaccato interessante e suscettibile di approfondimenti: nei primi 9 mesi del 2022 si sono registrate oltre 1,6 milioni di dimissioni dal posto di lavoro, con un più 22% rispetto allo stesso periodo del 2021 quando ne erano state computate oltre 1.3 milioni. Non si tratta peraltro di un fenomeno solo italiano, negli USA la deriva sta assumendo una dimensione tanto consistente da essere definita ‘Great resignation’, ‘le grandi dimissioni’. Per decenni politica, sindacato e associazionismo hanno posto il problema della carenza dei posti di lavoro come motore che innesca il volano dell’impoverimento e il blocco dell’ascensore sociale: analisi radicata negli anni e che permane, confermata ad esempio dal recente 56° Rapporto del CENSIS sullo stato di salute del Paese. Viene da chiedersi allora se esista un’analogia tra questa tendenza a sciogliere i legami con un’attività lavorativa e il più generale scollamento tra società e istituzioni, agevolato dal venir meno dei corpi intermedi, che il Direttore Generale dell’Istituto di analisi sociale, Massimiliano Valerii ha stigmatizzato come “ritrazione silenziosa dei cittadini”. Così come considerando questo disallineamento tra stili di vita prevalenti e fonti di produzione del reddito sarebbe utile rileggere “La società signorile di massa” leggi tutto
Uno strano partito s’avanza?
L’elezione del segretario del PD che avverrà domenica 26 febbraio con le cosiddette primarie dovrebbe suscitare qualche riflessione sullo stato della “forma partito” nel nostro contesto italiano. Nonostante le non poche vicissitudini che hanno portato alla sua formazione, il Partito Democratico rimane forse l’unico che aveva conservato un rapporto con la tradizione dei partiti di massa novecenteschi: una articolazione territoriale con una tradizione di partecipazione popolare, un sistema di selezione delle classi dirigenti che derivava dal percorso interno nella vita del partito, un sistema decisionale di tipo competitivo fra le sue componenti.
Negli altri partiti si è affermata ormai una deriva leaderistica che identifica ciascuno con un “capo” (massimo due o tre), con scarso o per lo più inesistente dibattito interno, con una selezione delle classi dirigenti legate alle fedeltà col vertice, con insediamento territoriale per lo più di facciata. Fa una parziale eccezione FdI, che aveva le caratteristiche della forma partito classica, ma che le sta perdendo, anzi forse le ha già perdute travolta dell’improvviso balzo elettorale.
Ma torniamo al PD. Ciò che colpisce nella vicenda di un presunto percorso costituente è innanzitutto la sua lungaggine. In astratto in una “comunità” (come usano definirsi) che dovrebbe discutere e confrontarsi di continuo e leggi tutto
Un'analisi del voto regionale
Le elezioni regionali nel Lazio e in Lombardia non hanno riservato sorprese rispetto ai sondaggi della vigilia: si sapeva che la Moratti e la Bianchi erano sopravvalutate da un meccanismo di opinione che tende a dare ad un improbabile e fragile Terzo polo più voti virtuali di quanti non abbia effettivamente e che accredita l'immagine di un M5s sull'onda di un successo che forse è solo il wishful thinking di qualcuno. Era inoltre ben noto che la competizione avrebbe premiato la destra (ormai la possiamo denominare così, perché è dominata dalle sue componenti più estreme: in pratica è una sorta di monocolore neomissino con qualche "cespuglio" ridotto alla marginalità). Di qui, il crollo dell'affluenza: ma l'esito scontato spiega troppo e liquida una questione che è ben più profonda e seria. In questo momento il sistema politico è bloccato e senza alternativa: lo sanno anche gli elettori dei partiti che vincono, i quali hanno disertato le urne in misura appena inferiore a quelli delle opposizioni, segno che tanto entusiasmo per il riconfermato Fontana e per Rocca non c'era affatto. In quanto a Sanremo, il solo fatto che nelle analisi del dopo-voto si sia dedicato tempo a correlare il festival col dato delle regionali indica quanta approssimazione leggi tutto
Interpretare il test elettorale
Adesso abbiamo i risultati del tanto atteso primo test elettorale che doveva verificare se quel che è accaduto il 25 settembre è stato un episodio contingente o rappresenta l’inizio di un trend destinato a durare. Come sempre si possono esaminare i dati con la lente degli specialisti nelle analisi elettorali (non è il nostro mestiere, per noi lo farà questo sabato Luca Tentoni), ma si può anche tentare una lettura più panoramica, pur con tutti i rischi che questo comporta.
Partiamo dal dato dell’astensionismo che è indubbiamente rilevante. I votanti oscillano tra il 41% in Lombardia e il 37% in Lazio. Non è la prima volta che si vede, perché il 37% si era già registrato in Emilia-Romagna nel 2014: anche allora c’era un vincitore dato per scontato (Bonaccini che nelle primarie di partito aveva sconfitto il prof. Roberto Balzani) e pochi interpretarono il dato come preoccupante. Tuttavia il vedere che questa volta su 12 milioni e più di elettori ha disertato le urne il 60% è senz’altro preoccupante. Però, se ci è permesso, è la base per capire quel che è successo.
La politica non è più una questione che coinvolge la grande maggioranza dei cittadini, convinti che ci sia un dovere di partecipare scegliendo fra le alternative in campo. Togliamo subito dal tavolo la sciocchezza leggi tutto
Non è obbligatorio il registro elettronico di classe
Non è vero che le azioni che si compiono, i comportamenti che si mettono in atto e ciò che si utilizza per mera abitudine consolidata e persino prevalente sia o possa diventare obbligatorio per prassi: come si dice in termini giuridici “la consuetudine non può mai operare contra legem”.
In molti istituti scolastici i dirigenti scolastici hanno di fatto imposto ai docenti l’utilizzo del registro elettronico in sostituzione di quello cartaceo, in ogni ordine e grado, dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria di secondo grado. La motivazione più accreditata è l’estensione – per una sorta di transfert applicato ad ogni contesto istituzionale e degli apparati della P.A. – della digitalizzazione come modo di svolgere operazioni d’ufficio, pratiche, annotazioni: insomma la sostituzione dei tradizionali mezzi – carta e penna- con le nuove tecnologie, per comunicare o archiviare.
Una deriva che ha assunto toni e modalità attuative persino parossistiche, applicando un principio generale a fattispecie sulle quali occorrerebbe esercitare il prioritario uso del pensiero critico e del buon senso. Specie quando l’uso del digitale vale più come metodo a prescindere, senza chiedersi se ci sia una corrispondenza pratica in termini di efficienza, efficacia, praticità, riservatezza ovvero trasparenza degli atti: se la forma prevale sulla sostanza si rischia leggi tutto