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Il dibattito incomprensibile sul premierato elettivo

Paolo Pombeni - 08.11.2023
Premierato elettivo

È francamente molto difficile inquadrare in qualche logica il dibattito intorno alla riforma proposta dal governo e che mira ad introdurre un confuso premierato (in verità un mezzo premierato) elettivo. Ci permettiamo di offrire qualche elemento per capirci qualcosa.

Punto primo: la radice dell’attuale assetto costituzionale. Chi ha letto gli atti dell’assemblea costituente sa che anche allora ci fu un dibattito sull’introduzione della figura del “primo ministro” all’inglese (premier questo vuol dire) che fu scartata perché non la si ritenne possibile in un contesto pluripartitico anziché bipartitico come in Gran Bretagna. Da noi ci sarebbe stato quello che negli atti viene definito un “governo di direttorio”, cioè un esecutivo che doveva tenere insieme più partiti nessuno dei quali era disponibile a riconoscere ad uno solo la primazia. Come vedremo siamo di fatto ancora fermi a quel tornante.

Punto secondo: l’argomento per cui il Presidente della Repubblica sarebbe libero di dare l’incarico a prescindere dal risultato elettorale regge relativamente. Alla chiusura delle urne se c’è un partito dominante e se questo è compatto nell’indicare un suo leader il Quirinale ha sempre dato l’incarico a questi. È avvenuto poi in maniera chiara quando si è introdotta con Prodi e Berlusconi l’indicazione del leader di fatto nella scheda elettorale delle rispettive coalizioni.

La cosa non ha funzionato in due casi. Il primo è una vittoria senza un vero vincitore con la maggioranza necessaria (il caso per citare i più recenti di Bersani o del contesto che portò al primo governo Conte). Il secondo è quando in corso di legislatura il presidente del Consiglio più o meno indicato dalle urne ha perso la sua maggioranza e non ne è emersa una alternativa. Allora il Quirinale ha potuto lavorare per la formazione di un governo che evitasse uno scioglimento traumatico e/o rischioso della legislatura fino al punto di farlo coagulare intorno ad un leader non estratto dai partiti (tecnico non è un termine veramente esatto).

La riforma presentata dal ministro Casellati punta a risolvere maldestramente questi ultimi aspetti. Con la votazione diretta del candidato premier si evita che ci sia un esito elettorale che lascia incerti sulla persona scelta dal “popolo” per quella carica. Però siccome si è ancora nella cultura del “direttorio” dei partiti si vuole salvare il potere di questi. Di conseguenza la riforma non fornisce il premier del potere di scelta e di dismissione dei suoi ministri, né consente che ove l’eletto perda la sua maggioranza parlamentare ci sia un obbligo di rimettere la scelta nelle mani degli elettori. I partiti dell’attuale coalizione non tollerano questi scenari e per sfuggirvi hanno inventato un ircocervo. Il premier, che non si è potuto scegliere i ministri, né che può controllarli mandandoli a casa se fanno le bizze (dunque rimane schiavo del vecchio tradizionale contesto della partitocrazia pur nella nuova versione di oggi), qualora venga sfiduciato può in teoria tentare di ricomporre la fiducia su di sé si suppone con qualche mercanteggiamento (comprandosi quei parlamentari di maggioranza che l’hanno silurato o comprandosene un po’ nell’opposizione), ma poiché anche chi ha inventato questo marchingegno si rende conto che ciò sarà piuttosto difficile, si è deciso che ci potesse essere un nuovo premier ovviamente non votato direttamente dal popolo, purché fosse della stessa coalizione che aveva vinto le elezioni e che dichiarasse di accettare il programma che questa aveva presentato (tutti sanno per esperienza che stiamo parlando di un misto fra carta straccia e libri dei sogni, sicché si può aderirvi formalmente rimanendo liberi di farne quel che si vuole).

Terzo punto: la denuncia del depotenziamento dei poteri del presidente della Repubblica. Anche qui stiamo parlando di una configurazione più che eterea. Il Quirinale era stato disegnato originariamente come poco più che un notaio: Einaudi più o meno interpretò così il suo ruolo. Poi gli inquilini di quel Colle hanno fatto politica attiva a fronte di un sistema che poteva essere orientato in qualche senso, o aveva perso ogni capacità di direzione della sfera pubblica. Qualche presidente ha fatto un uso molto responsabile e molto istituzionale di quel ruolo, ma è dipeso più dalle caratteristiche personali dell’inquilino del Colle che dagli strumenti che gli metteva in mano la Costituzione. Oggi si pensa che qualsiasi presidente elegga il parlamento sarà un nuovo Mattarella, ma con la composizione attuale delle Camere e col clima del paese ci permettiamo di avere dubbi al riguardo.

Ora è evidente, come è stato sottolineato dalla gran parte dei costituzionalisti, che il potere di arbitrato e di direzione dell’inquilino del Colle, eletto dalla classe politica del momento (magari a maggioranza semplice e risicata), sarà molto incerto a fronte di un premier che sia o eletto direttamente dal popolo o frutto di un colpo di potere delle stesse Camere che hanno votato per lui. Se si vuole evitare questo stato di cose bisogna mettere mano ad un incremento di legittimazione nel meccanismo di designazione del presidente della repubblica. Ma è un tema che nessuno vuol prendere a mano.

Ultimo punto: non si capisce perché la attuale maggioranza abbia scelto la via del pastrocchio scritto da Casellati e soci, anziché sfruttare il largo accordo che sarebbe possibile intorno ad una soluzione come il modello tedesco: premier (lì si chiama cancelliere) indicato dalle coalizioni in competizione, ma non formalmente vincolante (stessa cosa in Gran Bretagna); fiducia conferita solo al premier (possibilmente in una sola Camera) che nomina ed eventualmente licenzia i ministri; possibilità che sia sfiduciato solo se la maggioranza che lo censura indica contemporaneamente un nuovo premier che si impegna a sostenere. Se queste condizioni si rivelano impossibili il Capo dello Stato manterrebbe la facoltà di sciogliere la legislatura e richiamare i cittadini a votare.

Proviamo a dirlo brutalmente: con un sistema del genere Giorgia Meloni sarebbe molto forte, più forte che non con la sua pasticciata riforma (e lo stesso varrebbe per un suo successore di diverso colore). Ma non è a lei che non va bene, ma ai partiti della sua coalizione, che così si vedrebbero molto ridimensionati. Tutti sanno che sono loro, in particolare la Lega, ad avere spinto per le soluzioni cervellotiche (il porcellum è una inclinazione che da quelle parti fanno fatica a tenere sotto controllo).

Le opposizioni che fanno? Anziché battersi per una proposta alternativa ben calibrata che però risponda alle debolezze del nostro sistema attuale, si rifugiano nella solita lagna sulla costituzione che viene violata, nella speranza che così si vada ad un referendum confermativo che sperano affosserà la riforma e con essa il governo come sinora è sempre avvenuto.

Accolgano un suggerimento non richiesto: questa volta il rischio è molto più grande. Il referendum confermativo non ha quorum e dunque si ridurrà, temiamo, ad una battaglia fra i pasdaran degli opposti schieramenti e il fascino che può suscitare l’argomento del ridiamo il potere al popolo contro i giochetti dei partiti non va sottovalutato. Poi, come si è cercato di mostrare, non è affatto così, ma sono peculiarità che non sarà facile illustrare alla gente.

Converrebbe a tutti, governo, coalizione al potere e opposizioni impegnarsi a fare una buona e ragionevole riforma equilibrata facendola approvare con una maggioranza di due terzi. Ci risparmieremmo mesi di populismi di vario colore per avere alla fine, comunque vada, l’ennesimo pastrocchio che peserebbe sulla nostra capacità di governarci.