Ultimo Aggiornamento:
02 novembre 2024
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Argomenti

Partiti da ridefinire

Paolo Pombeni - 05.10.2022

Nell’attesa di vedere se e come la maggioranza di destra-centro che ha vinto le elezioni riuscirà a mettere in piedi un governo all’altezza delle sfide che ci troviamo davanti, a tenere banco è, o dovrebbe essere la necessità più o meno di tutti i partiti di ridefinirsi. Nessuno, infatti, è uscito dalla prova elettorale con un accreditamento della fisionomia con cui si era presentato ai votanti.

Persino il partito con il risultato più forte, cioè FdI, può dire di essere stato oggetto di una adesione del tutto convinta a quella che era la sua fisionomia, perché appare sempre più evidente che a vincere è stata Giorgia Meloni, cioè la leader che è riuscita ad accreditarsi come personalmente in grado di guidare il paese nelle difficili contingenze che abbiamo davanti. Effettivamente lei stessa ne è consapevole, tanto che ha impostato tutta la sua azione in questa fase di transizione obbligata come guidata da prudenza, da assenza di retoriche sopra le righe, da ricerca di trovare legittimazione presso il più ampio spettro possibile di opinione pubblica. Questo però pone in questione il suo partito, che non è affatto chiaro se sia disposto a mettersi sostanzialmente su questa nuova via e sia attrezzato per farlo. Non se ne parla leggi tutto

Il voto del 2022 nelle "capitali regionali"

Luca Tentoni - 01.10.2022

Il voto del 25 settembre nelle "capitali regionali" (i capoluoghi di regione) ha rispettato la tradizione. Il centrosinistra è molto più forte che a livello nazionale, mentre la destra è più debole. La coalizione della Meloni è passata dal 31,2% al 33,9%, mentre quella di Letta è al 33,1% (32,9% nel 2018); seguono il M5s col 16,5% (31,1%) e Azione/Italia viva col 10,2% (non presente quattro anni fa). L'affluenza è passata dal 70,6% (72,9% nazionale) del 2018 al 64,1% (63,9% nazionale), scendendo meno che nel resto d'Italia e allineandosi quasi perfettamente al dato complessivo. Resta il fatto, però, che è stato un gioco "a perdere": la destra ha avuto 1,512 milioni di voti (74mila in meno che nel 2018), il centrosinistra 1,478 (198mila in meno), il M5s 0,737 (844mila in meno); ha guadagnato solo Calenda (455mila voti) solo perché nel 2018 alle politiche non c'era. La differenza fra risultati nelle capitali regionali e resto del Paese è notevole, come si diceva: la destra perde il 9,8%, il centrosinistra guadagna il 7%, il M5s ha un +1,1% e Azione/Italia viva è a +2,4%. A livello territoriale, nelle metropoli, i rapporti di forza fra i poli sono i seguenti: Nord-Ovest, destra 33,9%, centrosinistra 37,1%, M5s 10,5%, Az/Iv 12,5%; Nord-Est, destra 39%, centrosinistra 33,3%, M5s 8,3%, Az/Iv 8,6%; Centro "ex rosso", destra 29,5%, centrosinistra 41%, M5s 10,8%, Az/Iv 11,6%; Roma, destra 37,4%, centrosinistra 32,4%, M5s 14,1%, Az/Iv 10,8%; Sud, destra 29,8%, centrosinistra 25,1%, M5s 33,8%, Az/Iv 5,9%; Isole, destra 30%, centrosinistra 23,1%, M5s 32,1%, Az/Iv 5,9%. Fra i leggi tutto

Una svolta o un ciclo storico?

Paolo Pombeni - 28.09.2022

Lasciamo perdere le stucchevoli analisi sul ritorno al potere dell’estrema destra dopo il fallimento di Mussolini e settant’anni di antifascismo. È roba da storici improvvisati o da banali seguaci dei riflessi di Pavlov di una cultura politica di scarsissimo spessore. Quel che è accaduto con le elezioni di domenica 25 settembre 2022 è un fenomeno noto agli storici: la reazione ad una fase di esasperazione del cambiamento nei momenti di transizione storica.

Paradossalmente Enrico Letta è riuscito ad imporre la sua visione dello scontro elettorale come un confronto fra noi e loro, noi dei “diritti” e loro della “negazione dei diritti”. Solo che non ha capito che da un lato quella esasperazione dei cosiddetti diritti era respinta da una ampia quota della popolazione già incerta sul futuro che la attende, mentre dall’altra più che di negazione dei diritti si parlava di fermarsi nella corsa al sempre più innovativo, di riscoprire il valore connettivo delle impostazioni più o meno tradizionali lasciateci da una storia pregressa. Giorgia Meloni ha colto il punto e si è affermata come leader di una svolta, riducendo il peso delle esasperazioni che stavano nel suo campo, cioè le sparate di Salvini, che a sua volta propone un mondo che non esiste, e le utopie leggi tutto

Il voto regionale nei capoluoghi: 2018-2020

Luca Tentoni - 24.09.2022

Le elezioni regionali del periodo 2018-2020 nelle quindici regioni a statuto ordinario hanno visto il destracentro e il centrosinistra divisi da circa dodici punti percentuali, un margine più ridotto rispetto ai ventuno delle europee e ai quattordici delle politiche. È stata, questa, l'occasione per Pd e alleati per riuscire a sorpassare il polo concorrente nei capoluoghi di regione: 40,2% contro 36,7% (tutti i dati sono ricavati dal mio volume "Le elezioni regionali in Italia", Il Mulino 2020). Come nelle precedenti tornate elettorali, il recupero del centrosinistra sul destracentro è stato rilevante: il 15,7%, contro il 19,6% delle europee 2019 e l'11,2% delle politiche 2018. Tutto è stato dovuto al consueto debole insediamento della Lega nei capoluoghi (-7,9%) e al buon risultato del Pd (+3,2%); Forza Italia (+0,5% nei capoluoghi) e Fratelli d'Italia (-0,2%) hanno sostanzialmente dimostrato una certa impermeabilità alla differenza centro-periferia; buono il risultato del M5s (+2,8%), a fronte però di un deludentissimo dato globale (12,2% nel complesso delle quindici regioni). Osservando le variazioni relative in percentuale fra questo ciclo di regionali e il precedente e confrontandole con quelle nei capoluoghi, vediamo che Forza Italia ha perso il 5,6% nel complesso, ma solo il 5% nelle città; la Lega ha guadagnato il 12,7%, ma "solo" il 9,4% nei capoluoghi. L'andamento nelle aree geografiche conferma il miglior rendimento "cittadino" del Pd leggi tutto

Democrazia illiberale?

Paolo Pombeni - 21.09.2022

Ci si conceda di toglierci dal frastuono elettoralistico che cresce in quest’ultima settimana e di affrontare, speriamo in maniera appropriata, un tema molto serio venuto malamente alla ribalta con la faccenda della condanna del parlamento europeo e della Commissione europea al sistema politico messo in piedi dal presidente ungherese Orban (vedremo poi se il Consiglio Europeo darà seguito a queste decisioni – ne dubitiamo).

Come tutti sanno, coloro che hanno approvato quella condanna hanno messo in rilievo che il sistema politico ungherese viola il modello costituzionale alla base del patto su cui si è costruita la Unione Europea. Quei non molti che hanno obiettato, fra cui in Italia Lega e FdI con i loro leader, l’hanno fatto sulla base dell’argomento che Orban è stato regolarmente eletto in competizioni almeno formalmente aperte. Dunque si sarebbero rispettate le regole della democrazia, che affida la sovranità al popolo, ma si è sorvolato sul fatto che il leader ungherese e vari suoi seguaci hanno apertamente parlato di “democrazia illiberale”.

Quella definizione è un ossimoro, ovvero una definizione che unisce due termini fra loro in contrasto, oppure non lo è, perché il liberalismo (meglio: il costituzionalismo liberale) è al massimo una delle forme che può assumere la democrazia, la quale potrebbe esistere leggi tutto

Le "capitali regionali" nel 2019

Luca Tentoni - 17.09.2022

Il nostro viaggio nel voto delle "capitali regionali" prosegue con le elezioni europee del 2019, che videro la grande vittoria della Lega. In quella occasione, le liste di centrodestra ottennero il 49,6% dei voti a livello nazionale, contro il 28,7% del centrosinistra e il 17,1% del M5s. Una situazione che - forse incautamente - accostiamo a quella immaginata da taluni per il 2022 (ma che nessuno può dire se sia verosimile o meno, tanto più in un periodo nel quale non ci sono sondaggi, quindi resta tutto una pura ipotesi). Ebbene, nel 2019, nei capoluoghi di regione (oggetto di un mio volume sulle elezioni europee pubblicato quell'anno dal Mulino) il centrodestra ebbe il 39,1% contro il 37,8% del centrosinistra e il 17,6% del M5s. In pratica, come nel 2018, una competizione impossibile fra i due poli tradizionali diveniva non solo probabile ma reale nelle grandi città, dove solo l'1,3% li separava (contro il 20,9% nazionale). Anche in questo caso, il rendimento delle liste nei comuni maggiori rispetto agli altri è stato differente da partito a partito: Forza Italia ha perso l'1,1% nelle "capitali regionali" dove Fratelli d'Italia ha invece ottenuto lo stesso risultato che altrove, mentre la Lega ha avuto il 24,9% contro il 34,3% nazionale (-9,4%); rilevante la differenza a favore del Pd (+7,7%) e da segnalare leggi tutto

I leader incredibili

Paolo Pombeni - 14.09.2022

In questa stramba campagna elettorale che non affascina se non quelli che la fanno e che vedono dovunque grandi riscontri, un fenomeno interessante è quello dei leader incredibili. Tali non nel senso di rivelare chissà quali inaspettate capacità politiche, ma nel senso banale del termine: non credibili per il ruolo che pretendono di rivestire.

Partiamo da Giuseppe Conte, capo politico dei Cinque Stelle. Se c’è un personaggio che viene dal mondo dell’establishment prevalentemente romano è proprio lui. Divenne presidente del Consiglio per una geniale trovata dei vertici pentastellati che si resero conto che il loro successo nelle elezioni del 2018 poteva essere consolidato solo dal classico “papa straniero”. La sua fortuna tanto nel suo primo quanto nel suo secondo governo si consolidò offrendosi come sponda ad una quota di alta burocrazia desiderosa di affermarsi: lo si vide con una certa evidenza soprattutto nella gestione della pandemia e nell’avvio del programma che sarebbe poi sfociato nel PNRR (qualcuno si ricorderà di quelle fantasiose proposte e iniziative).

Come non stupirsi di trovare oggi Conte nei panni del “descamisado” che infiamma il Sud proponendosi come il gran difensore dell’assistenzialismo, tanto quello che distribuisce un equivoco reddito di cittadinanza che non incrementa l’inserimento nel mondo del lavoro, leggi tutto

Il voto del 2018 nelle "capitali regionali"

Luca Tentoni - 10.09.2022

I capoluoghi di regione sono i luoghi nei quali si svolgeranno le battaglie più aperte e aspre fra centrosinistra e destra. Per questa ragione, abbiamo deciso di analizzare i tre più recenti appuntamenti elettorali: le politiche del 2018, le europee del 2019 e le regionali (a statuto ordinario) del periodo 2018-'20. Queste consultazioni hanno un punto in comune: come nel resto della Seconda Repubblica, nelle metropoli il centrosinistra è costantemente sopra le medie nazionali, mentre la destra è, specularmente, sotto media. Succedeva un po' anche nella Prima Repubblica, con la Dc debole nelle grandi città e i laici (in parte anche il Pci) su percentuali migliori di quelle nazionali. Che le sfide nei collegi uninominali dei "capoluoghi regionali" (per riprendere il titolo del mio volume del 2018, pubblicato dal Mulino, dal quale attingeremo i dati) si vede anche esaminando il rendimento dei poli nelle metropoli e nel resto d'Italia. Alle scorse politiche, nei collegi inerenti ai venti capoluoghi di regione, il centrosinistra si è aggiudicato il 28,6% degli "uninominali", contro il 24,5% del centrodestra e il 46,9% del M5s. Altrove, invece, il centrosinistra ha avuto appena il 7,7% dei collegi in palio, contro il 54,1% del centrodestra e il 38,3% del M5s. In sintesi, la probabilità che nei collegi uninominali delle grandi città, nel leggi tutto

Le contraddizioni del cosiddetto voto utile

Paolo Pombeni - 07.09.2022

La scelta di Enrico Letta di trasformare il confronto elettorale in una lotta epica fra la destra e la sinistra, poi magari, trascinato dalla mania delle personalizzazioni, fra lui e Giorgia Meloni, non è una decisione opportuna per il futuro della democrazia italiana. Non solo perché probabilmente ci getterà nell’ennesima riedizione di una legislatura avviluppata nella eterna rappresentazione della politica come lotta fra gli angeli e i demoni, cosa che favorisce in entrambi i campi l’affermarsi dei pasdaran e dei demagoghi. Molto di più perché apre il varco proprio a quella tentazione cosiddetta “presidenzialista” che invece il PD e altri non vorrebbero vedere instaurata.

La polarizzazione del confronto fra due sole aree veramente legittimate ad interpretare le variabili della vita politica porta ad affidare poi la scelta del “vincitore” al risultato delle urne, negando però qualsiasi spazio dialettico e qualsiasi vero ruolo per l’opposizione di chi perde, ridotta solo a recitare la litania della demonizzazione del vincitore nella speranza di cacciarlo alla prossima scadenza elettorale. È uno spettacolo poco esaltante che abbiamo già visto lungo l’arco della cosiddetta seconda repubblica.

La plastica rappresentazione di cosa significhi un andazzo del genere è nell’occupazione dell’ampio sistema di sottogoverno che è stato costruito. La RAI è emblematica perché è, leggi tutto

Guida alla lettura dei sondaggi pre-elettorali

Luca Tentoni - 03.09.2022

Fra pochi giorni non si potranno più diffondere sondaggi d'opinione. In questo modo, le posizioni dei partiti verranno "cristallizzate" a quindici giorni prima del voto; il problema è che quei dati saranno confrontati con i risultati elettorali, dando verosimilmente adito all'ennesima polemica sui sondaggisti che sbagliano. Da quando è nata la cosiddetta Seconda Repubblica, i sondaggi sono diventati un elemento importante della campagna elettorale (Berlusconi, per esempio, ha usato i più vantaggiosi già nel 1994 per far propaganda al suo partito), però ancora non si è capito che questo strumento ha un limite. Così, soprattutto sui social (dove l'ignoranza e la malafede trovano un certo brodo di coltura) ci si scaglia contro i "sondaggi taroccati dal potere" (ogni tanto un bel complottone ci vuole, altrimenti alcuni internauti si sentono inappagati). Le rilevazioni delle società che operano seriamente e da molto tempo sul mercato sono degne di attenzione, anche se non si sottolineano quasi mai le istruzioni per l'uso: 1) il sondaggio fotografa l'esistente (neanche quello di oggi, ma di uno o due giorni fa quando sono state fatte le interviste); 2) a seconda del campione, il margine d'errore può essere più o meno alto (di solito è il 3%: ciò vuol dire che un partito del 12,5% vale in leggi tutto