Le riforme costituzionali non sono slogan
Giorgia Meloni riesce a far digerire alla sua maggioranza una legge di bilancio piuttosto austera. Il prezzo è un po’ di concessioni più d’immagine che di sostanza, giusto perché ogni alleato possa avere la sua bandierina da sventolare. Dietro quella c’è ben poco. La norma sulle pensioni accontenta Salvini con quota 103 anziché 104, ma utilizzarla è così difficile e penalizzante che la useranno in pochissimi. La gente se ne accorgerà e la Lega non avrà gratitudine. La riduzione delle tipologie di affitti brevi da portare dal 21 al 26% di cedolare secca è compensata con una norma che dovrebbe portare all’emersione di un enorme mercato nero che si annida in quelle tipologie: se la applicano davvero non porterà voti della speculazione edilizia a Forza Italia.
Vedremo se davvero tutto andrà in parlamento senza essere insidiato da emendamenti della maggioranza (quelli dell’opposizione sono scontati). La vittoria che al momento sembra avere ottenuto la premier ha fatto parlare di premierato già in essere, il che renderebbe inutile la riforma costituzionale che dovrebbe essere varata in settimana. Ma non è così.
Per quel che se ne sa dalle anticipazioni dei giornali (al solito non c’è ancora un testo che sia possibile analizzare) la riforma predisposta sembra dal tandem Casellati-Calderoli (con varie supervisioni: Mantovano, Fazzolari, ecc.) ci pare singolarmente infelice. Come è quasi sempre avvenuto con le riforme istituzionali varate nell’ultimo quarantennio sono più furbate per garantire ad una specifica forza politica posizioni di forza inattaccabili che non disegni con una qualche visione dei problemi in campo.
Prima di entrare nel merito di quel che è trapelato sulla sostanza del provvedimento, ci togliamo lo sfizio di segnalare un fatto che dimostra quanto la mancanza di visione sia tipica di queste politiche. Sembra infatti che sarebbe abolita la possibilità per il presidente della repubblica di nominare i senatori a vita. Ora se c’era una norma che in teoria suggeriva l’opportunità che in parlamento fossero presenti anche “intelligenze” sottratte alle possibilità di designazione elettorale in mano ai partiti era quella. Certo in passato era servita anche, talora soprattutto per monumentalizzare qualche leader politico-parlamentare, ma non era questa la ratio e da qualche tempo non era più così. Che poi non sempre le scelte siano state fra le più illuminate è un altro paio di maniche.
Trattandosi di un numero esiguo di senatori (cinque in tutto; i tentativi di ampliarli surrettiziamente è fallito) non alteravano equilibri politici, se non quando questi mancavano, mentre davano il messaggio che fosse opportuno che la politica sentisse anche la voce delle “intelligenze” del paese. Di qui l’incomprensibilità della norma che li abolisce.
La ratio della riforma che introduce il premierato è solo quella di affidare alla scelta di un momento elettorale la decisione su a chi consegnare il paese. Quella scelta per cinque anni diventa irreversibile, se non al costo di sciogliere la legislatura e ritornare alle urne. Si sostiene che la bontà di questo schema sarebbe dimostrata dal buon funzionamento che mostra nella vicenda dei sindaci e dei presidenti di regione. A parte il fatto che anche questo andrebbe dimostrato, perché non mancano casi in cui il non potersi liberare del vincitore delle elezioni non si è rivelato esattamente una buona cosa, rimane che altro è il potere di sindaci e “governatori” che sono contenuti dal quadro delle decisioni legislative e amministrative nazionali. Il premier non ha secondo la riforma prospettata altri poteri che possano quantomeno condizionarlo. Non sarebbe più tale il presidente della repubblica, che non solo si trova ad un livello di legittimazione inferiore in quanto eletto dal parlamento e non come il premier dal popolo, ma che poi perde qualsiasi capacità di governare eventuali crisi del sistema politico.
Non è tale il parlamento che essendo di fatto privo del potere di dare o togliere la fiducia conterebbe assai poco. Infatti nel momento in cui negasse la fiducia al premier eletto dal popolo dovrebbe accettare il rischio di vedere sciolta la legislatura e chiunque conosca anche un poco la storia dei parlamenti (non solo del nostro) sa che deputati e senatori non amano per nulla doversi imbarcare anzitempo in una nuova campagna elettorale. Per di più con lo scioglimento delle Camere si perderebbe il premio di maggioranza che la nuova legge elettorale, questa volta messa, sia pure per accenno, nel nuovo testo costituzionale, assegna alla coalizione che in sintonia col suo candidato premier ha vinto le elezioni.
Sia detto francamente: non si vede la necessità di portare i vincitori alla maggioranza garantita del 55% dal momento che comunque i poteri del premier sono tali da metterlo già al riparo da qualsiasi complotto parlamentare, visto che in caso di mancanza di fiducia di fatto diventerà quasi automatico lo scioglimento della legislatura (e si sa benissimo che ormai su qualsiasi legge importante il governo mette la fiducia …). In verità i confezionatori della riforma si sono salvati una piccola scappatoia per consentire colpi di mano dentro la coalizione che ha vinto le elezioni: infatti il presidente della Repubblica potrebbe in un caso relativamente raro designare un premier diverso da quello indicato dall’elettorato ma col vincolo che appartenga alla stessa coalizione del vincitore e che sia impegnato a realizzare il programma elettorale con cui questi aveva vinto (clausola piuttosto cervellotica: come dimostra proprio il caso dell’attuale governo, questi si guarda bene dal mantenervi fede, visto che ha realizzato che è impossibile…).
Si potrebbe cinicamente osservare che non si sa quante chance di successo nel referendum confermativo possa avere una riforma di questo tipo, visto come sono finite le riforme precedenti. Tuttavia questa volta sarebbe diverso. Innanzitutto non si voterebbe su un enorme pacchetto di riforme come in quei casi, così vasto che la gente non ci si raccapezzata: qui in fondo la questione è semplice. Inoltre il referendum sulle riforme costituzionali non ha quorum e dunque, con l’astensionismo che c’è e con la scarsa familiarità con questi temi, sono anche possibili esiti determinati da momentanee infiammazioni di opinione pubblica.
Insomma nell’impostazione di una riforma costituzionale che avrebbe anche potuto essere ragionevolmente negoziata raccogliendo, se ben fatta, un consenso vasto, la maggioranza di destra-centro ha mostrato dilettantismo e banale fascinazione per vecchie formule ideologiche.
di Paolo Pombeni