Ultimo Aggiornamento:
07 settembre 2024
Iscriviti al nostro Feed RSS

La laurea, un bene di famiglia

Francesco Provinciali - 03.08.2024
ISTAT laureati 2023

Nell’annuale Rapporto ISTAT sui “livelli di istruzione e i ritorni occupazionali” riferito ai dati rilevati nel 2023, si evidenzia come il titolo di studio posseduto dai genitori resti un valore aggiunto per il percorso formativo dei figli. Quando infatti i genitori hanno un basso livello di istruzione quasi un quarto dei figli (il 24%) abbandona precocemente gli studi mentre di converso questa percentuale scende precipitosamente al 2% se il padre o la madre sono laureati. E mentre in un contesto familiare culturalmente deprivato solo il 10% dei figli completa il corso di studi fino alla laurea, in presenza di un genitore in possesso di laurea questo dato sale fino al 70% dei casi. È di tutta evidenza come la famiglia sia non solo un ambiente relazionale e affettivo – realtà peraltro pur sempre fondamentale per una crescita psico-fisica positiva della prole – ma inoltre come il dato culturale e più specificatamente il possesso di un titolo di studio elevato- segnatamente una o due lauree – conseguito dei genitori, rappresenti un atout di assoluto rilievo peraltro incidentale nel curricolo scolastico dei figli fino al raggiungimento, a loro volta,  del più alto titolo di studio. Considerando inoltre la fascia di popolazione compresa tra i 25-64enni, il tasso di occupazione dei laureati è 11 punti percentuali più alto di quello dei diplomati (84,3% e 73,3%, rispettivamente); il gap sale a 15,7 punti tra gli under 35 che hanno conseguito il titolo da uno a tre anni prima (75,4% e 59,7%). Il “fattore istruzione” si rivela determinante in una società aperta all’innovazione e tendente al progresso economico e di status: si potrebbe affermare che il piano terra del famoso ascensore sociale che porta ai piani alti di un curricolo scolastico completo e – prodromicamente – a posizioni lavorative più remunerate sia rappresentato dal punto di partenza coincidente con il contesto nativo e domestico del figlio-alunno-studente. Si tratta delle cd. “opportunità di partenza” le cui diseguaglianze dovrebbero essere compensate dalla scuola, per realizzare l’uguaglianza delle “opportunità di arrivo”. Ne consegue – secondo le rilevazioni statistiche dell’ISTAT – che resta invariato il vantaggio potenziale sul piano occupazionale tra chi consegue una laurea e chi si ferma al diploma. Nel 2023, tra chi possiede un titolo di studi universitario, il tasso di occupazione raggiunge l’84,3%, valore superiore di 11 punti percentuali rispetto a quello di chi ha un titolo secondario superiore (73,3%) e di 30 punti percentuali rispetto a chi ha conseguito al più un titolo secondario inferiore (54,1%). Il tasso di disoccupazione dei laureati, pari al 3,6%, è invece significativamente più basso rispetto a quello dei diplomati (6,2%) e a quello di coloro con basso titolo di studio (10,7%). Si conferma, dunque, l’evidente “premio” occupazionale dell’istruzione, in termini di aumento della quota di occupati al crescere del titolo di studio conseguito. Resta tuttavia un gap non ancora colmato tra i suddetti livelli occupazionali riferiti al titolo di studio posseduto nel nostro Paese e la media dei Paesi dell’U.E. e ciò vale anche per le retribuzioni, significativamente più basse in Italia che nella maggior parte del resto d’Europa. Non è un caso che il fenomeno del cd. “brain drain” (la fuga all’estero dei cervelli) sia tuttora rilevante e se mai crescente in maniera esponenziale: giovani medici, ingegneri, informatici, fisici …. laureati in prevalenza in materie scientifiche che se ne vanno altrove in cerca di maggior considerazione retributiva. Tanto è vero che sempre più spesso sentiamo parlare del fenomeno opposto – il brain gain – cioè l’ingresso per lavoro in Italia di laureati e specialisti provenienti da Paesi delle economie emergenti, che qui trovano un’occupazione che nel contesto d’origine scarseggia a motivo di quadro occupazionale generalmente meno evoluto, sul piano istituzionale e strutturale, pur a fronte di una formazione secondaria o terziaria equivalente alla nostra ma rivolto ad occupazioni meno gradite o appetibili dai nostri diplomati e laureati.  Così come lo scarto territoriale nel tasso di occupazione è più ampio per le fasce di età giovanili. Il tasso di occupazione dei 30-34enni nel Sud è più basso rispetto ai giovani del Nord di 19,8 punti percentuali tra i laureati (70,8%, contro 90,6%) e di 25,8 punti percentuali tra i diplomati (57,2% contro 83,0%). La popolazione (25-64 anni) residente stabilmente nel Mezzogiorno del Paese è mediamente meno istruita (quanto a possesso di un titolo di studio secondario o terziario) rispetto a quella del Centro-nord: il 39,6% ha un titolo secondario superiore e solo il 18,1% ha raggiunto un titolo di livello universitario; nel Nord e nel Centro la quota dei diplomati supera il 45% (rispettivamente il 46,5% e il 45,2%) e quella dei laureati il 22% (22,4% e 25,6%). Il gap territoriale nei livelli medi di istruzione riguarda uomini e donne, sebbene sia più consistente per la componente femminile. Nel Mezzogiorno, inoltre, il tasso di occupazione (e questo è un dato ben noto, costantemente ricorrente - si può affermare - dal dopoguerra ai giorni nostri) è molto più basso che nel resto del Paese mentre quello di disoccupazione – di converso – è decisamente più alto, anche tra chi ha un titolo di studio elevato: il tasso di occupazione dei laureati è pari al 76,4% (88,3% nel Nord) e quello di disoccupazione al 6,1% (2,4% nel Nord). Nel Mezzogiorno, tuttavia, i vantaggi occupazionali dell’istruzione sono superiori rispetto al Centro-nord, in particolare tra le donne con un titolo di terzo livello, segnatamente in ambito scolastico. Anche se l’emigrazione al Nord dei docenti in cerca di una stabilizzazione del rapporto di lavoro attraverso il superamento del precariato è parte consistente del processo ininterrotto di trasferimento al Nord per motivi occupazionali. Il lavoro part-time non evidenzia significative differenze nelle tre aree geografiche del Paese mentre quello ‘involontario’ – non dipendente dunque da una scelta del lavoratore ma dalle occasioni di lavoro offerte - rappresenta invece il 41,6% del part-time complessivo nel Nord e raggiunge il 73,4% nel Mezzogiorno (l’85,0% tra gli uomini e il 67,6% tra le donne). Parallelamente al crescere del livello di istruzione la quota di part-time involontario diminuisce: tra le donne occupate in modalità part-time con basso titolo di studio raggiunge ben il 59,3% mentre tra le laureate scende - pur restando decisamente elevata - al 42,6% (negli uomini si attesta rispettivamente al 77,0% e al 55,8%). Anche questo dato concorre a rafforzare il convincimento – suffragato dalle evidenze – che il possesso di un titolo di studio terziario favorisce maggiori opportunità lavorative e opzioni temporali di impiego diversificate.

Guardando ancora oltralpe l’ISTAT evidenzia inoltre come in Italia il numero dei laureati sia ancora inferiore alla media europea, che le donne – pur essendo più istruite degli uomini- (nel 2023, il 68,0% delle 25-64enni ha almeno un diploma o una qualifica (62,9% tra gli uomini) e coloro in possesso di un titolo terziario raggiungono il 24,9% (18,3% tra gli uomini) – accusino un gap occupazionale di ‘genere’ ancora elevato, specie per le cd. lauree STEM, infine che i lavori a breve termine siano legati a bassi livelli di istruzione. E mentre si conferma che l’abbandono scolastico implementa in relazione a contesti familiari poco acculturati, la deriva positiva riguarda la decrescita graduale dei cd. “giovani NEET” (che non studiano e non lavorano): un dato che induce speranze di innalzamento dei livelli formativi, occupazionali e di distribuzione economica, per una società più aperta ed inclusiva.

E questa mi pare una buona notizia anche se non si sostanzia ancora in una marcata inversione di tendenza che passa inevitabilmente attraverso una consapevolezza collettiva che è la somma di ravvedimenti e opportunità sul piano delle motivazioni personali.