Come spiegare l'astensionismo elettorale
Le recenti elezioni europee, ma anche le precedenti regionali e poi quelle amministrative fino a risalire alle politiche hanno espresso un dato vistoso che nessun analista e gli stessi partiti potrebbero eludere, pena l’essere tacciati di indifferenza ovvero di abituarsi ad una deriva che di fatto falsifica l’esito del voto: senza ombra di dubbio l’astensionismo costituisce un fenomeno che meriterebbe di essere studiato con urgenza perché ormai è stata superata la soglia del 50% di coloro che hanno rinunciato ad esprimere una scelta. Innanzitutto bisognerebbe capire se questa tendenza ormai sedimentata, tanto da far dire che viviamo una sorta di democrazia minoritaria, possa essere ascritta ad un deficit partecipativo, imputabile ai cittadini-elettori. In parte potrebbe essere così tuttavia credo che le attenuanti generiche stiano compensando le ‘aggravanti’ contestabili alla politica e ai suoi protagonisti. Occorrerebbe scandagliare più a fondo per comprendere le ragioni di una disaffezione così vistosa. Più volte il CENSIS e il suo Presidente Giuseppe De Rita hanno posto il problema della progressiva disintermediazione sociale in una società senza centro e periferia e inoltre la crescita del divario che separa la gente dalle istituzioni. Si tratta forse di una sorta di “indifferenza reciproca e ricambiata” anche se vale ancora la triste ma veritiera descrizione di Massimiliano Valerii quando afferma che assistiamo alla “ritrazione silenziosa dei cittadini dimenticati dalla Repubblica”. Chi confidava che il dimezzamento dei parlamenti avrebbe ridato slancio alla partecipazione democratica e sfoltito la burocrazia ha fallito: in realtà è accaduto il contrario fino al superamento della soglia psicologica del 50% degli astenuti tra gli aventi diritto al voto. Tra i motivi che potrebbero in parte spiegare questo abbandono crescente del diritto-dovere di votare va certamente ascritta la tendenza alla personalizzazione della politica. I partiti raramente celebrano congressi dove – come nella famigerata Prima Repubblica – la linea di un partito scaturiva dal dibattito e dal confronto su temi di indirizzo politico, attraverso tesi o mozioni. Prevale ora invece una sorta di costruzione piramidale e verticistica interna la cui prima preoccupazione è il consolidamento della leadership del capo fondatore o della guida a connotazione proprietaria degli organismi del partito: un tempo i simboli elettorali erano la sintesi di idee o di programmi, l’imprimatur di un indirizzo e di un modello di orientamento sociale. Aveva persino più corrispondenza ideologica l’ispirazione del posizionamento: centro, destra e sinistra. Adesso diventa centrale e prevalente il nome del capo a cui si attribuisce una connotazione che finisce per diventare carismatica: il tutto rafforzato da un sistema elettorale – mi riferisco alle elezioni parlamentari - dove sono abolite le preferenze e la scelta e l’ordine delle candidature sono imposte in maniera verticistica. Certamente ciò induce i cittadini a pensare che i giochi siano pilotati e tutto sia già stato deciso: alzi la mano chi può affermare il contrario senza essere sbugiardato dai fatti. Questo è un vulnus rilevante che non stimola certamente il recarsi alle urne non potendo esprimere un voto personale fiduciario sulle candidature. La personalizzazione della politica, oltre a generare una concezione proprietaria dei partiti (si pensi al fenomeno marginale ma significativo e trasversale dei coniugi e parenti parlamentari) impone la scelta di candidati non per meriti acquisiti ma rappresentanza e impersonificazioni di fatti di cronaca eclatanti, se non di collusioni o viceversa conflitti con la magistratura: giudici e imputati che sono messi in lista per ragioni che poco hanno a che fare con la linea di un movimento politico. La risonanza mediatica di certe candidature assume un valore simbolico che non ricorda certo la vocazione, il beruf direbbe Max Weber, di una scelta o il riconoscimento di un talento. Cambi di casacca, alleanze tattiche che non diventano strategiche, divergenze di vedute anche su aspetti marginali che trasmutano in pretesti per dividere piuttosto che per unire: si pensi alla grande occasione perduta dai partiti e partitini di centro, un’area moderata che meriterebbe una più consistente rappresentanza e che forse resta malcelata in larga parte delle astensioni. Ragioni personali e di primazia e visibilità hanno impedito di accorpare queste forze politiche e l’elemento divisivo va ascritto in prevalenza a fattori soggettivi e rivalità personali. Viene spontaneo chiedersi quali ragioni ancestrali costituiscano ‘impedimenti dirimenti’ e ostativi a compattare l’area centrista che subisce erosioni sulle due sponde del bipolarismo e non stimola l’elettorato moderato a recarsi alle urne. In questo modo una larga fetta di opinione pubblica resta senza rappresentanza. Anche perché è finita l’epoca della sovrapposizione tra ceto medio e forze cd. moderate. Lo scontento sociale, il senso di insicurezza, i timori, le ansie, le paure e – come sottolinea il CENSIS - una certa malinconia post-populista spingono gli elettori a rinunciare: manca la motivazione ideologica stemperata nell’assenza di modelli sociali rappresentativi di scelte orientate e coraggiose.
È anche vero che molte delle cause della “ritrazione” vanno cercate oltre che nella delusione suscitata dalla politica anche nello stesso corpo elettorale. Se non c’è persuasione e orientamento verso questo o quel partito ciò può essere spiegato dai sentimenti prevalenti nel corpo sociale Indifferenza, scarso senso civico, diffidenza verso i propri pari, disimpegno, egoismo: se nessuno è in grado di rappresentarci in un contesto socio-culturale dove l’omologazione e le comunicazioni dei social media sostituiscono le relazioni personali allora tanto vale non scegliere per non sbagliare. I partiti non sanno attingere dal contesto sociale persone di valore che pure ci sono, non interessa tanto cercare talenti e competenze quanto piuttosto fedeltà e obbedienza: ecco che la politica diventa un hortus conclusus per soli iniziati. Questo stato di latenza erode progressivamente i consensi da una democrazia partecipata verso un’oligarchia che si esprime attraverso cordate di amici e cenacoli per soli invitati. Ci sono anche persone che hanno vissuto una vita di lavoro, di studio, di rinunce e sacrifici e raccolgono solo vessazioni e fregature: più di uno si interroga e si arrende di fronte a cooptazioni e candidature scaturite da effetti speciali, echi di cronaca, successi editoriali, visibilità mediatica. Potrebbero essere utili – questi esponenti di una maggioranza silenziosa che non trova spazi di agibilità politica – ma restano anonimi e dimenticati nel corpaccione sociale dell’uno vale uno.
Un vero peccato questo scoramento generalizzato che sta diventando preponderante: le troppe promesse e le troppe illusioni sono due versanti speculari di un isolamento prevalente.
Sarebbe interessante una ricerca sociologica che cercasse di approfondire il fenomeno dell’astensionismo: si fanno sondaggi ed exit poll ma ad urne chiuse si conferma questo lento scivolamento dell’affluenza al voto. Superata la soglia del 50% il timore è che il non voto diventi il movimento di opinione prevalente. Una sconfitta per la democrazia ed un’incognita per il futuro.
di Francesco Provinciali