La politica estera è una cosa seria
Siamo alla vigilia del voto del parlamento europeo per la nomina del presidente della Commissione, ci confrontiamo con i risultati del recente vertice Nato e con le prospettive non proprio serene delle prossime presidenziali americane (complicate dall’attentato a Trump), siamo stati da poco messi di fronte all’ennesima follia della guerra fra Israele e Hamas. Ebbene di tutto questo nella politica italiana si parla con una superficialità sconcertante.
Da un lato c’è il solito Salvini che pontifica su argomenti che non padroneggia, perché solo questo può spiegare le sue affermazioni contro l’invio di armi all’Ucraina perché così si prolunga il conflitto. Certo se si disarma quel paese si apre la strada ad una vittoria totale di Putin che sta conducendo la sua guerra di aggressione con una ferocia che dovrebbe essere evidente a tutti. Sul versante opposto ci sono quelli che lamentano gli impegni del nostro governo per aumentare le spese per la difesa sostenendo che quei soldi dovrebbero essere impiegati per la sanità e per le spese sociali. Obiettivi che certo vanno perseguiti, ma senza dimenticare che sarà possibile farlo bene solo se il nostro Paese si mostrerà in grado di ottemperare alla sua parte nel quadro delle alleanze che ha stipulato, le quali comportano che la UE si attrezzi per avere una capacità militare di difesa.
Si può capire che le ragioni di politica estera siano difficili da spiegare all’opinione pubblica dopo un lungo periodo di pace in cui si è cancellata tendenzialmente la presenza della competizione anche armata fra le nazioni, o meglio, oggi, fra i blocchi in cui si sta nuovamente dividendo il mondo. Nella rappresentazione un po’ ingenua che aveva preso piede, gli scontri geopolitici erano sembrati svanire con la fine del grande confronto fra “occidente” e “sfida sovietica”. Venuta meno per crollo la seconda, si era ritenuto che più o meno la questione fosse solo quella di convincere i “guerrafondai” dell’occidente che ormai si poteva considerare acquisita una pacificazione del mondo giusto al prezzo di smontare gli appetiti “capitalistici” che avevano orientato una parte almeno del blocco vincitore del grande confronto del Novecento.
Oggi ci si deve rendere conto che la situazione è molto più complicata perché sono tornati in campo gli scontri degli “imperialismi” che non sono più tanto quelli dello schema considerato classico fra “liberalismo” e “comunismo”, ma quelli ben più radicati nella vicenda degli stati che hanno avuto una storia imperiale e che stanno cercando di ricostruirla in termini più o meno rinnovati. La politica estera della Russia di Putin punta a ricostruire quel dominio sul mondo “slavo” che quel paese si costruì fra il 1500 e il 1700 conquistandosi i territori baltici sottratti al regno di Svezia, i territori dell’Europa orientale sottratti al regno di Polonia, e altri territori del mondo ex bizantino. L’Ucraina in questa storia è considerata territorio russo e la sua riconquista da parte di Mosca è vissuta come un diritto: una lotta necessaria per ribadire la preminenza dello slavismo sul mondo occidentale.
Se si guardano le cose in quest’ottica storica si capirà anche perché la Cina diventa l’alleata del Cremlino. Di nuovo è un grande impero che avendo fatto con successo una grande rivoluzione tecnologica e di potenza vuole ritornare agli antichi splendori. La questione di Taiwan in quest’ottica è simile a quella ucraina vista dallo zar Putin.
In questa dissoluzione degli equilibri geopolitici dati per garantiti dalla preminenza americana con qualche propaggine europea trovano spazio le riprese di altri imperialismi storici: quello ottomano con la attuale politica turca, quello persiano, con l’Iran che muove anch’esso le sue pedine nel ridisegno di quel Medio Oriente che non accetta più di fare i conti con la ormai superata egemonia occidentale. A cascata arrivano le strumentalizzazioni di ogni possibile conflitto: le molti mani che si muovono nell’ombra della questione israelo-palestinese ne sono testimonianza (e solo la miopia politica di Netanyahu si illude di potersi muovere nel solco delle vecchie guerre dell’altro secolo), ma in parallelo si sviluppano fratture con “l’occidente” che stanno diventando sempre più evidenti in molti paesi che per vari aspetti sono ormai qualcosa di più che emergenti come è il caso dell’India o del Brasile.
In un contesto tanto difficile l’Unione Europea sembra sempre più un piccolo gigante dai piedi di argilla. Non è solo il problema che non riesce a darsi una vera politica estera, per le resistenze dei sovranismi che interessano, al di là di qualche differenza di retorica, più o meno tutti i 27 stati membri, ma che non sembra in grado di produrre più quella cultura comune che nei secoli scorsi è stata il vero fondamento della sua rilevanza storica. La fiducia nella rivoluzione costituzionale che è stata il grande contributo europeo (e in parte americano) su cui si è costruito il sistema politico delle democrazie è oggi in manifesta crisi. Crescono le sirene che predicano l’uscita da quel contesto (per esempio la cosiddetta “democrazia illiberale”), si allarga la presa del fascino per le soluzioni messianiche, di destra o di sinistra che siano, è a dir poco in cattivo stato il tessuto del solidarismo sociale, quello che consente di distribuire i pesi e i benefici in maniera sufficientemente equilibrata.
In un paese come l’Italia, che da un lato è interessata da queste crisi nella vita del suo sistema e che dall’altro non può sottrarsi all’essere parte di un sistema internazionale occidentale in cui è collocata dalla sua storia e dalla sua geografia, sarebbe urgente che le classi dirigenti, a cominciare da quelle politiche, ma non solo da loro, operassero per educare l’opinione pubblica alla delicatezza di questa congiuntura epocale sotto la quale rischiamo di essere travolti. Al momento però, spiace constatarlo, non sono questi i problemi su cui si concentra l’attenzione pubblica.
di Paolo Pombeni