La criminalità minorile. Giustizia riparativa o giusta punizione?
L’omicidio di Thomas, il 16enne ucciso a coltellate a Pescara da due ragazzi poco più che coetanei, è solo l’ultimo di una serie impressionante di fatti di sangue, delitti, gesti criminali che stanno connotandosi come ‘fenomeno sociale’, nel senso che si ripetono con una frequenza disarmante e si estendono a tutti i target di estrazione e di provenienza ambientale e familiare. Il riferimento alla famiglia come soggetto interessato direttamente a queste vicende è d’obbligo visto che stiamo parlando di minorenni che in prevalenza vivono in un contesto familiare. Inevitabile quindi considerare il dolore inesprimibile dei genitori delle vittime ma anche quello, ugualmente angosciante e denso di interrogativi e sensi colpa dei padri e delle madri degli autori di questi gesti efferati, che scuotono le coscienze di tutti e squarciano il velo di apparente normalità dei contesti esistenziali di riferimento. Viviamo un tempo in cui stiamo abituandoci al peggio: qui non si tratta del solito refrain generazionale per cui si può dire che certi fatti accadevano anche in passato, solo che non se ne parlava. Vero è che i media e i social stanno diventando i megafoni del male, eppure ci sono tra i giovani esempi di serietà, impegno scolastico, rispetto dei genitori, solidarietà sociale, gesti di generosità. Si ha tuttavia l’impressione che prevalgano alcune evidenze deteriori: il ripetersi incessante di fatti di violenza tra minori e in danno di minori induce a pensare che sia stata metabolizzata dai ragazzini una sorta di immunità alle conseguenze derivanti da certi gesti scellerati. C’è poi una vistosa carenza di controllo genitoriale: dove vanno i nostri figli di notte, perché rincasano al mattino, spesso ubriachi e drogati, perché non si confidano sulle compagnie che frequentano, perché ostentano sicurezza, rivendicazioni di libertà senza controlli ed esprimono tracotanza e ribellione? Anche a scuola accade ciò che un tempo era impensabile: ragazzi che picchiano i professori, supportati o sostituiti da genitori difensivisti ad oltranza. Abbiamo perduto il senso del limite: noi adulti per primi, con un atteggiamento in genere concessivo. Tutto sembra fatto per non creare complessi di inferiorità o turbamenti ma si usa più spesso il “sì” del “no”. Il fenomeno dell’adultizzazione precoce stimola emulazioni di cattivi esempi ma è il vivere sociale che va assumendo sembianze di insostenibilità. Concedere tutto, perdonare sempre, permettere che ragazzini poco più che bambini girino armati di coltelli e li utilizzino con una disinvoltura agghiacciante, l’uso sempre più frequente di alcool e di droghe, spesso acquistate da pusher noti, ma con quali soldi? Proprio in questi giorni il Dipartimento per le politiche antidroga ha riferito al Parlamento che 680 mila giovani di cui 360 mila minorenni hanno fatto uso di droghe nell’anno precedente. Il 39% degli adolescenti (4 studenti su 10) ha ammesso di aver provato almeno una volta ad assumere una sostanza stupefacente. Sono dati agghiaccianti, specie se riferiti ai minori. Qualcuno non vuole sentire parlare di baby gang eppure si coagulano tra i ragazzini gruppi dediti ad attività delittuose e criminali. Ricordo che in America Latina il fenomeno esiste da decenni e va espandendosi nel mondo contestualmente all’emigrazione: le “maras” sono bande di taglieggiatori che estorcono denaro, sequestrano bambini, organizzano la prostituzione minorile, sfidando le forze dell’ordine. Ma anche restando negli eventi di casa nostra si nota come sempre più spesso certi fenomeni di violenza sono agiti in gruppo: in genere se ne fa parte per non essere da meno, chi si tira fuori viene bullizzato o punito ma l’ostentazione espressa in azioni delittuose crolla di fronte alla confessione di qualche amico, raramente per pentimento del male commesso. Usare un termine come “rispetto dovuto” per massacrare di coltellate un minore per un debito di qualche decina di euro significa aver perso il vero “rispetto” verso la persona umana, la disinvoltura con cui ci si uccide tra ragazzini è un campanello d’allarme che dovrebbe indurre a maggiore severità. Ricordo che in sede di Tribunale minorile si assumeva e si usa tuttora il criterio della giustizia mite o “riparativa”: in rapporto all’età dei giovanissimi imputati di reati penali e questo per consentire loro un lungo percorso di redenzione e di reinserimento sociale e relazionale, la consapevolezza del necessario pentimento e un’opera di educazione al bene. Tuttavia emerge il dato della frequenza e della reiterazione dei fatti delittuosi che non può indulgere ad una facile remissione. Ci si domanda in altri termini se fatti così gravi possano essere rimossi e dimenticati con disinvoltura senza una netta condanna del male commesso, specie se si tratta di vite umane cancellate. Parliamoci chiaro: è pedagogicamente utile al singolo e alla società la stigmatizzazione e l’accertamento di responsabilità dell’azione compiuta. Il fatto che tutte queste vicende finiscano in una fiaccolata o nella liberazione dei palloncini al cielo non può costituire un alibi per una catarsi personale e sociale, non basta questo. Il pentimento postumo e questo finale coreografico possono diventare una sottostima della gravità dei fatti: se tutto finisce in un applauso c’è chi può imparare da questo che uccidere o violentare siano comportamenti emendabili e persino ripetibili. Come in un macabro rituale.
di Paolo Pombeni
di Francesco Provinciali