Ultimo Aggiornamento:
10 maggio 2025
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Le lezioni francesi (e quelle britanniche)

Paolo Pombeni - 03.07.2024
Elezioni francesi

Colpo atteso quello uscito dalle urne francesi, in quanto i dati consolidati non ridimensionano il successo del Rassemblement National, confermando il 33% attribuitogli dagli exit polls. Vedremo giovedì sera se i risultati delle elezioni che arriveranno dalla Gran Bretagna confermeranno anche in questo caso le previsioni: il colpo di maglio elettorale con i laburisti che vincono a valanga e i conservatori che registrano una autentica debacle.

È importante leggere in parallelo questi due casi, che sono ovviamente molto differenti, ma che, a modesto avviso di chi scrive, registrano entrambi i dilemmi in cui si battono le opinioni pubbliche in questi tempi così complicati.

In Francia si è registrato il tramonto del centrismo tecnocratico di Macron. Gli elettori si sono spaccati di fronte alle proposte di risistemazione oligarchica del quadro economico sociale fra chi ha deciso di affidarsi alla “reazione” della destra e chi scommette sulla accelerazione radicale della sinistra. La proposta del duo Le Pen-Bardella promette la difesa di quel sistema di benessere diffuso che aveva caratterizzato l’ultima fase del XX secolo rimuovendo (non si sa come) i fattori di cambiamento che si sono avuti nel contesto attuale. La sinistra, che non è molto distante in termini di percentuali di voti raccolti, si muove sotto l’egemonia del radical-utopismo di Melenchon che propone la fuga in avanti non per restaurare una società precedente, ma per crearne una nuova senza contraddizioni e squilibri (anche in questo caso il come è oscuro).

Il ridurre tutto allo scontro fra fascismo e antifascismo fa parte della viscosità del linguaggio politico, che preferisce sempre ricorrere a categorie che si danno per acquisite nella formazione della demarcazione fra due campi contrapposti. Funziona fino ad un certo punto, ma è un usato sicuro e, paradossalmente, più nelle fasce giovanili che in quelle mature.

A noi sembra curioso che questa vicenda francese si sviluppi quasi in parallelo con quanto sta avvenendo in Gran Bretagna. In quel paese i fenomeni erano arrivati prima, anche se lì la diatriba fascismo/antifascismo ha radici storiche modeste. I conservatori inglesi hanno governato per 14 anni proprio presentandosi come la forza che poteva far sopravvivere la buona, vecchia, sana Gran Bretagna dei tempi d’oro, quella che al massimo si considerava europea solo marginalmente, anzi che alla fine ha deciso che per salvare una propria presunta identità storica da quella Europa doveva proprio uscire.

Anche qui la sinistra ha reagito in quel lungo periodo riattivando progressivamente una tradizione radicale, un utopismo da socialismo vecchia maniera che ha avuto la sua acme nella leadership di Jeremy Corbin. Ha registrato una sconfitta dietro l’altra, con il paese che in ultimo correva dietro le fantasie di Boris Johnson, a cui si affidava nella speranza che gli avrebbe consentito di godere dei beni della post-modernità senza pagarne i prezzi.

Ma ora i britannici hanno toccato con mano quanto erano vanesie quelle politiche e pagano sulla loro pelle una recessione sempre più evidente. Ciò però in questo caso non ha portato a scegliere il radicalismo di sinistra, ma ad un ritorno dell’alternativa laburista a quella che è stata storicamente la sua forza: rappresentare una componente riformista senza estremismi, un socialismo ben temperato che è stato sempre guardato con molto sospetto dai socialisti massimalisti continentali. Sembra quindi che ora Keir Starmer, il leader di questa nuova forma di “new labour”, il 4 luglio riceverà dagli elettori il mandato a mettere fine all’età delle nostalgie di ritorno al passato e a mettere mano a riforme sostanziali, ma di buon senso.

Coloro che discettano oggi sui venti di destra che soffiano in Occidente (e ci sta dentro anche il fenomeno Trump negli USA) piuttosto che leggere tutto con le lenti della storia della prima fase del Novecento farebbero bene a ragionare su cosa comporti una stagione come quella attuale che è interessata da mutamenti i quali inevitabilmente comportano uno spaesamento delle nostre comunità sociali e politiche. Ad esso non si può rispondere né offrendo l’oppio della impossibile restaurazione di un passato (che fra l’altro è dubbio sia stato così dorato come si vuol far credere), né mettendo in circolo le anfetamine di una tempestiva fuga in un futuro cui ci si illude di poter approdare in tempi rapidissimi.

Il dilemma della politica oggi è tutto nel come si può sfuggire alla trappola della contrapposizione fra quelle due alternative. Le classi politiche per lo più preferiscono cavalcarle: è la corsa alla radicalizzazione degli scontri, alla fuga dai confronti costruttivi, fenomeni che vediamo crescere continuamente. Un contesto internazionale incandescente favorisce questo clima: i neo imperialismi, grandi e piccoli, che vediamo all’opera hanno percepito che sistemi, nazionali e sociali, in crisi di coesione e sbandati nelle aspettative per il futuro sono un ventre molle in cui possono affondare i loro colpi.

Se non sembrasse un’utopia, starebbe alla vecchia Europa, che oggi, se è cosciente della sua fase attuale, potrebbe presentarsi fuori dal gioco degli imperialismi, assumere il ruolo di una forza integrata che riprende in mano la sua tradizione di solidarismo sociale nonché di confronto costituzional-democratico e che le elabora per uscire dalle sabbie mobili degli opposti radicalismi. Ci vorrebbe una rivoluzione culturale e qualche leader capace di visione, anziché i giochetti di banale machiavellismo pseudo-politico come quelli che abbiamo visto di recente e che, temiamo, continueremo a vedere.